
Giulia Napoleone
IL SEGNO E LA POESIA NELLE OPERE DI GIULIA NAPOLEONE
di Fabrizio Fantoni
Giulia Napoleone
di Fabrizio Fantoni
Antonella Anedda, Photo © Maria Sofia Mormile
Non volevo nomi per morti sconosciuti
eppure volevo che esistessero
volevo che una lingua anonima
– la mia –
parlasse di molte morti anonime.
Ciò che chiamiamo pace
ha solo il breve sollievo della tregua.
Se nome è anche raggiungere se stessi
nessuno di questi morti ha raggiunto il suo destino.
Non ci sonno che luoghi, quelli di un’isola
da cui scrutare il Continente
– l’oriente – le sue guerre
la polvere che gettano a confondere
il verdetto: noi non siamo salvi
noi non salviamo
se non con un coraggio obliquo
con un gesto
di minima luce.
***
Mi spingo oltre il dolore
dove nessuno sospetta che si soffra
in una zona di pelle mai colpita
cupa come l’avambraccio
o molata dall’osso come il gomito.
Striscio piano con l’anima coperta da scaglie rosso-grigie
per sostenere i rovi e lasciare a terra
il sangue minimo. Un passo – sono paziente –
e il corpo ha imparato a frusciare dentro l’erba.
Da molto lontano – da un’alba di ottobre
da un oggetto mosso nella sabbia del lago
viene ciò che la pena contempla: un paesaggio
dove non si può dormire.
Era una lunga immagine
il mormorio di un brivido.
Troppo tardi si compone l’astuzia di ogni sera
fingere che il mio braccio sia il tuo
che stringa la mia mano
di nuovo, senza pace.
Da Notti di pace occidentale, Donzelli, 1999 Continua a leggere
Antonella Anedda / Credits Photo Dino Ignani
NOTA DI LETTURA DI LORENZO CHIUCHIU’
Geografie, non paesaggi. Non sezioni che l’arbitrio estetico isola, ma interi domini di una visione aerea o di una continuità geologica. Non contemplazione, ma descrizione che cerca attraversamenti, affinità e faglie.
Florenskij insegna che esistono due prospettive, la lineare e la rovesciata. La lineare è quella introdotta dal Rinascimento fiorentino: il punto di fuga che ordina la scena sfonda il quadro nella direzione che va dall’occhio alla rappresentazione. La prospettiva lineare è l’effetto di uno sguardo che si inabissa in un infinito che è sua proiezione.
Ma esiste anche la prospettiva rovesciata. È quella in cui l’osservatore non proietta un punto di fuga, ma lo diventa. Florenskij spiega la prospettiva rovesciata attraverso le icone, nelle quali le linee che ordinano la composizione vanno dall’icona all’osservatore: il punto di fuga diventa l’uomo. Per gli scrittori di icone essa non è né rappresentazione né mimesi, ma la presenza tangibile dell’infinità di Dio. E questa presenza determina una prospettiva che implica l’infinità dell’uomo: il punto di fuga non è più effetto dello sguardo umano; nella prospettiva rovesciata dell’icona il fuoco prospettico sprofonda nelle anime, che così si scoprono infinite. Lo pensava anche Eraclito: non troverai mai i confini dell’anima (45, DK).
Qualcosa di simile accade in Geografie. Le prose di Antonella Anedda somigliano a icone laiche in cui la prospettiva rovesciata precipita nella visione dell’interiorità. È come se le geologie, le ere e la cruda invarianza del dolore della storia – il loro senso o la loro perfetta assurdità – crollassero nella vita interiore del poeta: coscienza, Erlebnis, memoria e tonalità emotive– ciò che Antonella Anedda chiama «il nostro coro interiore». Continua a leggere
Giulia Napoleone. Galleria IL PONTE, anteprima mostra “nero di china”, Firenze, 18 gennaio 2020. Credits photo, Fabrizio Fantoni
COMUNICATO STAMPA
Biblioteca cantonale di Lugano
Giovedì 27 maggio 2021
Ore 18.00
Inaugurazione della mostra:
Il segno e la poesia.
25 libri d’artista di Giulia Napoleone
___________
Da tempo un legame di amicizia lega la Biblioteca cantonale di Lugano a Giulia Napoleone. L’artista è già stata infatti ospitata in passato in questi spazi con alcune opere. Del resto, col suo lavoro di meditazione sulla pagina scritta e sulla parola, si pone in linea perfetta con le scelte espositive dell’istituto che, negli ultimi anni, mirano a indagare questo particolare aspetto della creatività.
Da queste considerazioni è nato il desiderio di collaborare in vista della realizzazione di una mostra.
Giulia Napoleone ha così appositamente creato per la Biblioteca
cantonale di Lugano 25 libri d’artista.
Giulia ha scelto una serie di poeti, inserendo in queste nuove meditazioni molti dei suoi consueti compagni di viaggio e numerosi altri amici, tra cui diversi ticinesi: Adonis, Annelisa Alleva, Antonella Anedda, Marco Caporali, Maria Clelia Cardona, Massimo Daviddi, Roberto Deidier, Milo De Angelis, Biancamaria Frabotta, Gilberto Isella, Maria Gabriela Llansol, Fabio Merlini, Pietro Montorfani, Alberto Nessi, Elio Pecora, Yves Peyré, Giancarlo Pontiggia, Fabio Pusterla, Roberto Rossi Precerutti, Rocco Scotellaro, Luigia Sorrentino, Brunello Tirozzi, Maria Rosaria Valentini, Marco Vitale, Simone Zafferani.
Sono nati così gli splendidi libri d’artista esposti a Lugano per la prima volta, una collezione di opere che si distinguono per varietà di formato e soggetti, la cui unicità risiede principalmente nel fatto che Giulia Napoleone non ha soltanto realizzato le immagini, ma ha anche composto le pagine, individuato e trascritto i versi, scelto con cura gli elementi fisici – carta, matite, inchiostri… – che dovevano accompagnarla in questo lavoro. Continua a leggere
COMMENTO DI ALBERTO FRACCACRETA
La riflessione poetica d’impianto ecologico sta crescendo a dismisura (a ragione, verrebbe da dire). Il problema — gnoseologico, epistemologico ma persino concreto — è enorme e i poeti si stanno battendo alla grande. Negli Stati Uniti e un po’ ovunque nel mondo è sorta da alcuni anni una vera e propria branca della lirica che si chiama ecopoetry: vi sono coinvolti numerosi autori che sarebbe riduttivo, se non offensivo, bollare come “naturalisti”: essi sono molto di più. Ovviamente hanno un occhio di riguardo verso la natura. Ma affrontano anche temi disparatissimi — politica, società, relazioni, filosofia — servendosi di un cannocchiale ecologico per mettere a fuoco prospettive poetiche al di là di ogni ideologizzazione.
Il rischio delle etichette è che il campo si può restringere fino a pochi nomi o, al contrario, lo si può allargare oltre il consentito. Ad esempio, il compianto Philippe Jaccottet rientra nell’ambito dell’ecoliterature, avendo praticamente dedicato tutta la sua carriera di poeta alla natura, ai boschi di Grignan, agli alberi, agli uccelli, a un paesaggio mozzafiato? Farei dunque una distinzione (imprecisa e sommaria, pardon).
Da un lato esiste una ecopoetry propriamente detta: ed è quella di Forrest Gander — tanto per fare un nome, ma con lui i suoi maestri: Robert Hass, Gary Snyder etc. —, ossia un tipo di letteratura che in maniera programmatica si propone di combattere le devastazioni ambientali attraverso lo schermo opaco dei versi. Ma, dall’altro, esiste anche una poesia ecologica integrale (mutuo il sintagma «ecologia integrale» da Papa Francesco), in cui il monito ambientale si estende a tutte le relazioni con i propri simili e con il cosmo (le interrelazioni): qui Jaccottet ci rientra benissimo e, a mio giudizio, possono rientrarci molti poeti italiani tra cui senz’altro Antonella Anedda ed Elisa Biagini.
Poesia come ossigeno. Per un’ecologia della parola è un testo (un pamphlet), suddiviso in quattro parti: nella prima assistiamo a un «dialogo a tre teste» (Riccardo Donati, Antonella Anedda, Elisa Biagini), che si snoda tra lingua, innocenza, presente, paura, silenzio. Nelle altre tre sezioni (Pensare; Leggere e riflettere — I versi che (s)occorrono; Scrivere — Dentro la bottega) le teste diventano due, il curatore molto galantemente si ritrae, le poetesse accedono assorte al loro stesso «pensiero poetante». E per quale ragione esso sarebbe ecologico? Facciamo riemergere il curatore, Donati, il quale nell’introduzione al volume scrive: «Ciò che la poesia fa, quando è frutto di studio e rigore, passione e sincero coinvolgimento, è esattamente questo: dire in forma sintetica la complessità». L’ecologia della parola sta in questo: nel non inquinare con i detriti inutili e dannosi della prosaicità, nel dire poco in breve spazio (e se vogliamo nel consumare poca carta!).
Vediamo cosa scrive l’Anedda: «Questo è un libro a tre teste in cui abbiamo provato a parlare di nuovo di poesia. In modi diversi per genere e generazioni, incontrandoci sulla necessità di un linguaggio in grado di emozionare senza retorica, autentico ma non banale. Abbiamo provato a parlare di desideri e non di leggi, di possibilità e non di purezze o primati da difendere. Parafrasando il poeta Wallace Stevens, che ne descrive tredici, esistono molti modi di osservare un merlo. Esistono molti modi non solo di fare, ma di leggere poesia. La poesia non salva la vita, tanto meno quella mentale, ma — ed è questa forse l’unica consolazione — conserva la specie della scrittura, facendo quello che fanno i vermi nella formazione del terriccio».
E la Biagini: «C’è ancora bisogno di parlare di poesia? Veniamo da anni di distorsione e abbrutimento linguistico, di livellamento delle parole e dei cervelli, dove la cosiddetta cultura è spesso asservita all’intrattenimento e non è più momento pedagogico, qualcosa che scuote le coscienze e le certezze. Si continua a ricorrere a una lingua semplificata e a effetto, dai toni urlati e demagogici. Si continua a ignorare come questo modo di esprimersi sia il sintomo di un malessere assai profondo e complesso, un aver disimparato come stare con gli altri.
Dobbiamo dunque abbandonare ogni speranza e smettere di leggere e scrivere poesia (o fare arte in generale)? Assolutamente no. È vitale, politico, ovvero inestricabilmente connesso ai motivi dello stare insieme: scrivere (e prima di tutto leggere) versi è un qualcosa che ci rende esseri umani più attenti e sensibili, ci aiuta a continuare a crescere».
Come vermicelli o come semplici lettori, nel terriccio e nel non abbrutirsi, nella natura e nella politica è possibile crescere in un’ecologia integrale della persona umana. Chiosa Donati: «Ecco, piuttosto, cosa della poesia (s)occorre: il fatto di essere un oggetto […] con niente da offrire se non la capacità di aiutare qualcuno». L’ecologia diviene solidarietà, vicinanza, apertura, carità.
Concetto peraltro ribadito in un altro scritto molto interessante della stessa Anedda: si tratta di un saggio poetico — sul modello di quelli di Jaccottet e Zagajewski ma punteggiato di lemmi e brevi argomenti che aumentano l’intenzione diaristica e la concertazione filosofica —, Geografie. Continua a leggere