Gian Mario Villalta, “Nel lembo del tempo”

Gian Mario Villalta credits ph Dino Ignani

È l’ora, soddisfatte le ombre,
e con il vento
volato via lo sguardo
dalle sedie sul prato,
dal pensiero della fatica che è stata la sera.

Stai su un lembo del tempo
non è più la terra
dove sei nato,

porti il fiato sul vetro
e la luce attraverso ti fa di cera.
Dove hai le mani, tu vedi

stasera
il viso che chiudi nei palmi
in attesa di un grido, la sete

di animale notturno.

*

L’ombra della voce si assottiglia.

Giorno dopo giorno l’incertezza
raschia i margini a ogni parola.

Tu sai quanto distante è sempre stato
per me il presente, per desiderio matto
dell’adesso, per timore che il prendere
tutto, tutto in una volta, mi perdesse.

Il dopo giorno sfasa il sincrono
degli occhi e delle labbra.

*

fermi i colori fuori, tutti i pensieri
smentiti dall’altoparlante

il cielo vuoto porta via i giorni dove eravamo

e gli alberi c’erano sempre stati, sempre stata
la primavera, non ti chiedevi se ancora, per quanto,
se sarà mai, se mai era stato vero

devo dirti che ho paura e non so come
perché là fuori c’è il tempo, là fuori, e qui mancano istanti
alle ore

*

“L’inferno sono gli altri”
J. P. Sartre

Solo nell’auto tra i campi (uscito a comprare cibo)
ho fatto un giro largo
per le stradelle: nessuno. Un deserto fiorito
di case belle, lussuose di erbe e di acqua veloce.
Solo io ancora vivo: che inferno
sarebbe? Io, prigioniero di tanto bendidio.

La parola ancora, percepibile
al tatto, torna al mittente
a occhi chiusi

(gli altri sono anche l’inferno, sì, sono
anche tutto, però).

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Roberto Esposito, “Il fragile equilibrio fra comunità e immunità”

Roberto Esposito

IL DOPPIO VOLTO DELL’IMMUNITA’

DI ROBERTO ESPOSITO

Bisogna stare attenti a non ridurre il significato del concetto di immunità a un’esperienza recente, di carattere medico o giuridico, volta a chiuderci entro confini difensivi nei confronti dell’altro. Ciò non è sbagliato, ma va inserito in un orizzonte più ampio, adottando uno sguardo di lungo periodo.

Da questa prospettiva, per così dire genealogica, l’immunità, o l’immunizzazione è un paradigma attraverso il quale è possibile rileggere l’intera storia moderna. Se l’esigenza di autoprotezione della vita caratterizza tutta la storia umana, rendendola possibile, è nella modernità che essa viene percepita come un problema fondamentale, e dunque come compito strategico.

Privati delle protezioni naturali di carattere teologico che avevano caratterizzato la stagione premoderna, gli uomini sentono il bisogno di costruire dei dispositivi immunitari di tipo artificiale per proteggersi dai mali, dai conflitti e anche dalle novità che li minacciano, il primo dei quali è lo Stato moderno.

Quanto accade oggi non è che l’ultimo passaggio, sempre più accelerato e quasi ossessivo, di questo processo. Quello cui assistiamo, insomma, è uno straordinario mutamento di scala di un processo risalente nel tempo. Per capire il fenomeno in tutto il suo rilievo, storico, filosofico, antropologico, non dobbiamo smarrire la complessità del meccanismo di immunizzazione, evitando ogni semplificazione polemica o retorica.

Esso è un processo ambivalente, che produce effetti contraddittori. L’immunizzazione è allo stesso tempo necessaria e rischiosa, protegge dai rischi e ne genera a sua volta altri. È necessaria perché nessun corpo individuale o collettivo potrebbe sopravvivere a lungo senza un sistema immunitario che lo protegga da conflitti insostenibili – per esempio senza il sistema immunitario del diritto una società esploderebbe. Ma è rischioso perché, oltre una certa soglia, l’eccesso di protezione rischia di bloccare l’altra esigenza umana fondamentale che è quella della comunità, cioè della relazione tra gli uomini.

Il problema che abbiamo anche oggi di fronte non è quello, semplicistico, di contrapporre comunità e immunità, ma articolarle in una forma sostenibile che non sacrifichi l’una a favore dell’altra. Certo, oggi, forse mai come oggi nel corso di tutta la storia, assistiamo ad una crescita abnorme dell’esigenza immunitaria. Essa è diventata il perno intorno al quale ruota tutta la nostra esperienza reale e simbolica, il punto d’incrocio di tutti i linguaggi – biologici, giuridici, politici, economici. Riguarda insieme il corpo individuale e il corpo collettivo, il corpo sociale e il corpo informatico, tutti in difesa contro i virus di vario genere che li attaccano o sembrano attaccarli.

In questo modo l’equilibrio tra communitas e immunitas sembra spezzarsi a favore di quest’ultima. Il limite appare superato, con la conseguenza di ridurre al minimo non solo la vita in comune, ma perfino la libertà individuale. Il rischio ultimo cui le nostre società immunizzate vanno incontro è quello che si sperimenta durante le malattie autoimmuni, quando il sistema immunitario è talmente forte da rivolgersi contro lo stesso corpo che dovrebbe proteggere, distruggendolo.

Si è visto che questo – un eccesso di difesa da parte degli anticorpi – è quanto accade anche nel covid 19, con l’esito di infiammare i polmoni, come scrive nel suo ultimo libro sull’immunità – Il fuoco interiore – l’immunologo Mantovani. Qui si determina il classico controeffetto delle procedure immunitarie quando sono spinte aldilà della loro funzione normale. Continua a leggere

L’ordine del mondo



Nel tempo del coronavirus
di Luigia Sorrentino

 

 

La pandemia da coronavirus della quale si è cominciato a parlare in Italia dal 22 febbraio 2020 è l’epidemia mondiale chiamata COVID-19 e provocata dal virus SARS-CoV-2.

Di questo virus noi, persone comuni, sappiamo davvero ben poco.
Ci hanno detto che si era diffuso già molti mesi prima nel mercato del pesce di Wuhan, in Cina, per poi propagarsi in Giappone, poi in Italia, e via via, velocemente in tutto il mondo, causando migliaia e poi milioni di morti.
Successivamente abbiamo saputo che il virus, manifestatosi con febbre alta, tosse, e con una strana polmonite interstiziale, circolava in Italia già dall’ ottobre 2019.

Il governo italiano colto alla sprovvista ha preso decisioni drastiche: nel tentativo di arginare l’emergenza sanitaria e la diffusione del virus ha costretto l’intera popolazione a restare in isolamento per mesi, fermando, di fatto, l’intero Paese.

La necessità di contenimento imposte dalla pandemia hanno sollevato numerose proteste sul piano geopolitico e ideologico, volte a rivendicare i diritti umani che sembravano essere stati messi in discussione. Anche se nella maggioranza dei casi, le reazioni più condivise sono state di accettazione eppure spesso alla base vi era un fondo di amarezza per quello che sembrava essere, oltre che una misura di tutela sanitaria, anche un attentato alla libertà individuale e collettiva. Continua a leggere

Quante parole non ci sono più

Tributo a Mario Benedetti
di Luigia Sorrentino

«Povera umana gloria
quali parole abbiamo ancora per noi?»

da Umana gloria, MARIO BENEDETTI

 

E’ già passato un mese. Il 27 marzo 2020 è morto l’amico e poeta Mario Benedetti. Eravamo in piena epidemia,  chiusi nelle case, per difenderci dal nemico invisibile.

Subito dopo la notizia della scomparsa di Mario, su mia iniziativa, con la collaborazione di Fabrizio Fantoni, a partire dal 27 marzo 2020, abbiamo invitato diversi poeti famosi, giovani poeti e critici militanti, a inviare al blog, ricordi, testimonianze o articoli per rendere Tributo a Mario Benedetti.

La mia intenzione era quella di innescare una militanza poetica sulla figura e sulla poesia di Mario Benedetti poeta italiano, morto con il covid-19, in un tempo in cui tutto il pianeta si è fermato proprio a causa del diffondersi dell’epidemia.

L’auspicio, quindi,  era di fermare l’attenzione dei nostri lettori, pubblicando uno o due post al giorno per ricordare per 31 giorni (un mese)  la poesia di uno dei maggiori poeti del nostro tempo. Certo è che di lui non sentivamo più parlare dal settembre 2014, e cioè dal giorno in cui Mario fu colpito da arresto cardiaco con ipossia cerebrale che aveva compromesso, in gran parte, le sue capacità cognitive.

Mi è sembrato doveroso, pertanto,  offrire il  tributo  del blog poesia a un  importante poeta contemporaneo, uno dei migliori della sua generazione, noto e apprezzato da molti, fino a sei anni fa. Purtroppo  di Mario Benedetti non se ne parlava più da tempo.  Era caduto nel silenzio assordante dell’isolamento e della malattia.

Eppure Mario era vivo, ancor vivo, e amato dagli amici di sempre che non hanno mai smesso di fargli visita nella residenza di Piadena, vicino Cremona, nella quale Mario, in precarie condizioni di salute, era ricoverato e assistito.

Fra le tante persone che abbiamo invitato a scrivere di Mario, o su Mario, come detto prima, poeti noti, giovani poeti e critici militanti. Alcuni di essi conoscevano bene la poesia di Benedetti, altri meno, altri ancora, avevano letto solo qualche suo libro, molti non l’avevano mai incontrato di persona, o solo di sfuggita.

Comprendendo nell’elenco me stessa, sono 35 i poeti e i critici che hanno deciso di partecipare all’iniziativa, che si snoda, giorno dopo giorno, a partire dal 27 marzo, come un libro. Uno fra loro ha tenuto a precisare: “Commemorare la scomparsa di un poeta è più facile per chi lo ha conosciuto bene e di persona, mentre per valutarne l’opera non è detto che ciò sia necessariamente un vantaggio.” Continua a leggere

Il sogno di vivere di Mario Benedetti

L’ultima foto di Mario Benedetti postata sul suo profilo di facebook, nell’estate 2014

di Fabrizio Fantoni

Sta solo fermo nella tosse.
Un po’ prende le mani e le mette sul comodino
per bere il bicchiere di acqua comprata,
come tanti prati guardati senza dire niente,
tante cose fatte in tutti i giorni.
Intorno ha una cassettiera con lo specchio,
due sedie scure, un armadio, l’incandescenza minuscola di una stufa.
Dei centrini, la stampa di una natività con il rametto di ulivo,
un taccuino, dei pantaloni, delle cose sue.
Davanti il cielo che è venuto insieme a lui,
gli alberi che sono venuti insieme a lui. Forse una ghiaia di giochi
e dei morti, che sono silenzio, un solo grande silenzio, un silenzio di tutto.
A volte l’acqua del Cornappo era una saliva più molle,
un respiro che scivolava sui sassi.
A volte tutto era l’uccellino del freddo disegnato sul libro di lettura
vicino a una poesia scritta in grande da imparare a memoria.
A volte niente, venire di qua a prendere il pezzo di cioccolato
e la tosse, quella maniera della luce di far tremare le cose,
gli andirivieni, il pavimento stordito dallo stare male.

La prima impressione che offre questa poesia Per mio padre, tratta da Umana gloria (Mondadori, 2004) è di sfogliare un vecchio album di fotografie, lasciato abbandonato da qualche parte , e poi ritrovato.

I paesaggi, le case, gli interni delle stanze dove si consuma l’intimità familiare, gli oggetti della vita quotidiana, si dispiegano sulla pagina  come su una scena, convocati dal poeta in una dimensione fuori del tempo e del reale e si fanno, nello spazio della poesia, “fiaba” intesa come dimensione della bellezza sul punto di scomparire, della grazia per un attimo intravista e poi persa, proprio come le apparizioni trascoloranti che popolano le storie.

Si racconta che il faraone Micerino, essendo condannato dagli dèi a vivere una vita breve, decidesse di illuminare con migliaia di fiaccole i suoi palazzi e i suoi giardini in modo da trasformare le notti in giorno ed avere la percezione di vivere più a lungo.

Questa è la metafora più bella del poeta perché, del resto, cosa fa il poeta se non cercare di trattenere, quanto più possibile, quel poco che gli è dato di vivere?

Mario Benedetti, di certo, va in questa direzione,  ponendosi, tuttavia, ad una “distanza”dalle cose – la distanza propria del sopravvissuto, di chi può narrare ciò che è stato prima del naufragio- che gli permette di  imprimere all’oggetto della sua rievocazione un carattere simbolico che si fa specchio di un paesaggio metafisico interiore in cui l’essere umano appare costantemente sul punto di dissolversi:

“solo qui sono, nel tempo mostrato, per disperdermi” Continua a leggere