“Non finirò di scrivere sul mare”, finalista al Premio San Vito 2020

SPECIALE PREMIO SAN VITO 2020

Non finirò di scrivere sul mare, Giuseppe Conte (Mondadori, 2019)

di Giancarlo Pontiggia

 

La forza dolce e terribile di Eros, la libertà dello spirito, l’energia civile del canto sono le forze che agitano da sempre la poesia di Giuseppe Conte: forze in atto, sussultorie e scardinanti, che aprono alla contemplazione dell’infinità dei mondi, che ci ricordano ad ogni verso ciò che è la vita, il sogno, la morte, la dimensione simbolica del nostro sentire, la semplice gioia fisica dell’esserci, dello stare qui, nella vastità metamorfica e squassante del cosmo.

Fin dai versi di Figlia del Sole e di Perseide, che apparvero a metà degli anni Settanta, Conte ha gettato nel catino ideologico e sperimentalistico della poesia di quegli anni una passione che era nuova e arcaica nello stesso tempo. Era una poesia che parlava di mito, di natura, di cieli, di mare, e che racchiudeva in sé la lunga, meravigliosa lezione dell’intera lirica d’Occidente, aperta anche ai sogni d’Oriente: dai versi severi, animati da una forza immaginativa e fantastica di un Alcmane fino ai grandi esiti romantici e postromantici della nostra modernità, da Goethe al Foscolo, da Shelley e da Victor Hugo al D’Annunzio di Alcyone e di Maia. Quei versi, nutriti di una retorica lussuosa e fiammeggiante, centrata sull’uso erratico e immaginoso della metafora, cólti e insieme così immediati, come nel memorabile modello leopardiano, presentavano una dicibilità e una leggibilità, una limpidezza di scrittura e di vocabolario che d’incanto ci conducevano fuori dai giardini ardui e scuri, grandiosi nella loro tensione ma rovinosi nel loro esito, di gran parte della poesia novecentesca. Dicevano, a chi voleva intendere, che la poesia è energia vitale, e che compito dei poeti è elargire parole forti, decisive, che sappiano entrare nella realtà delle cose forzandone la crosta indifferente, opaca. Anche per questo Non finirò di scrivere sul mare è un libro che ci appare, oggi, inevitabile, come se ad esso ambissero tutti i libri precedenti, e non solo perché il mare è presenza fatale – originaria – della poesia di Conte, ma perché qui l’autore presta il suo verso, liricissimo, a una modulazione poematica, a una sorta di carmen continuum, ricco di variazioni e di riprese, di slanci e di moti che trovano la loro rappresentazione proprio nel movimento, ondoso e sovrano, possente ed enigmatico, del mare.

C’è tutto Conte, la sua umile sapienzialità, il suo generoso spendersi in vortici lucenti di suoni e di rime, in questo libro ventoso e aurato, in cui alla verticalità degli scandagli esistenziali si alternano i moti di un’anima infiammata delle cose del mondo, fosse anche solo un riflesso, un soffio, un barbaglio di essere: il suo anarchismo indocile, l’esercizio di una pietas mai retorica, la tensione meditativa e contemplativa del verso, il sentimento della precarietà e della povertà del nostro vivere, lo slancio figurativo della parola che s’impregna di mondo. Ci sono le domande di sempre, le stesse che leggemmo, adolescenti, nei versi sublimi del Canto notturno. Ci sono le struggenti pagine familiari dedicate alla madre, madre-mare, in cui si toccano gli estremi della vita e della morte. Ci sono le contraddizioni dell’animo umano, che si rispecchiano negli indomabili moti del mare, «eternamente eguale e diverso / e fedele e infedele a te stesso». C’è la forza conoscitiva e irradiante del mito, che s’incarna nelle figure-archetipo di Orfeo e di Ulisse – polytropos e polymetis –, di Nausicaa che non offre solo cibo e vesti al naufrago di ogni tempo, ma «sogni d’amore». Continua a leggere

Canzian, Conte e Grassi in finale al premio San Vito al Tagliamento

NOTA DI MATTEO BIANCHI

Sono migliaia i premi letterari nel nostro Paese e annualmente è impossibile tenerne un conto esatto. Purtroppo, però, seguendo i consigli di sedicenti portali a pagamento ben indicizzati emerge un’immagine del nostro panorama poetico alla stregua di un sottobosco, di un agglomerato di salotti e di baronie asfittiche che senza il canto della vanità svanirebbero. Oltre agli ambiti in cui per accaparrarsi una medaglia è necessario comportarsi da cortigiani e blandire il critico di riferimento, si mantengono alcune eccezioni, alcuni contesti nei quali premiare significa trovare e riconoscere, riconoscere una continuità con il passato e negli stessi versi trovare un buon motivo per lasciarlo andare. In sostanza, c’è chi si prende ancora cura delle opere pubblicate e non solo dei loro autori.

La missione del Premio San Vito al Tagliamento, fondato nel 1976 e oggi a cadenza biennale, si può riassumere in cinque versi di Andrea Zanzotto, che fu a lungo nella giuria tecnica: «Natali così lontani / da bloccarci occhi e mani / come dentro fatate inesistenze / dateci ancora di succhiare / degli infantili geli le inobliate essenze», da Dintorni natalizi (1997). Il riconoscimento, che tra gli atri è stato presieduto anche da David Maria Turoldo, Fernando Bandini e Silvio Ramat, in quasi mezzo secolo ha raccolto la partecipazione dei poeti più significativi del contemporaneo, dimostrando un impegno costante nel portare alla luce, o meglio all’udito, il legame indissolubile tra tessuto sociale e fatto poetico. Inoltre non è da tralasciare una certa declinazione dialettale, al di là dell’attenzione alla poesia in dialetto, che indica la stessa sostanza di responsabilità etica e poesia nel Sanvitese; infatti qui non è indifferente l’eredità del Pasolini di Casarsa, distante pochi chilometri da San Vito.

Per l’edizione 2020 la giura tecnica presieduta da Elvio Guagnini e composta da Gian Mario Anselmi, Nico Naldini, Marco Marangoni, Giacomo Vit ha selezionato tre finalisti, tra i quali domenica 21 marzo sarà dichiarato il vincitore dagli ottanta lettori che compongono la giuria popolare. Sono arrivati in finale Alessandro Canzian con Il “Condomio S.I.M.”  (Stampa2009, 2020), Giuseppe Conte con “Non finirò di scrivere sul mare” (Lo Specchio Mondadori, 2019), e Amilcare Mario Grassi con “la Figùa de pórvoa – Figure di polvere” (Manni, 2019).

Per l’occasione il blog “Poesia” della Rai, diretto da Luigia Sorrentino, ha invitato tre voci della poesia italiana contemporanea  a commentare i volumi dei tre finalisti:  Mario Santagostini, Giancarlo Pontiggia e Alberto Rollo.

Ve ne daremo conto nei prossimi giorni proprio su questo blog.

 

I FINALISTI Continua a leggere

Piero Bigongiari, “l’amore del mondo”

Piero Bigongiari

 Il tuo occhio guarda nel fuoco
 la visione brucia
 un gelo nutre il seme della luce
 nel ghiaccio, la banchisa
 celeste si sfa.
 Io non so quel che è stato
 la terra si cretta, escono scorpioni
 il ragno sale al centro della tela
 il mare opina
 che il sole esiste per tingersi di terra
 sulle acque pensieroso.
 Non oso, amore, non oso
 chiamarti.
 Appoggiata a una domanda non è una risposta
 ma tutto l’amore del mondo
 è una parola.

 Piero Bigongiari, una poesia da Antimateria, Mondadori, 1972

 ***

 Ti perdo per trovarti, costellato
 di passi morti ti cammino accanto
 rabbrividendo se il tuo fianco vacuo
 nella notte ti finge un po’ di rosa.

 Quali muri mutevoli, tu sposa
 notturna, quale spazio abbandonato
 arretri al niveo piede, al collo armato
 del silenzio dei cerei paradisi

 che in festoni di rose s’allontanano?
 Eco in un’eco, mi ricordo il verde
 tenero d’uno sguardo che dicevi
 doloroso, posato non sai dove

 di te, scoccato dentro il misterioso
 pianto ch’era il tuo riso. Oh, non io oso
 fermarti! non i muri che dissipano
 di bocci fatui un’ora inghirlandata.

 Odi il tempo precipita: stellata,
 non so, ma pure sola Arianna muove
 dalla sua fedeltà mortale verso
 dove il passo ritrova l’altra danza.

 Piero Bigongiari, una poesia da La figlia di Babilonia, Parenti, Firenze, 1992

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Giancarlo Pontiggia, “Voci, fiamme, salti nel buio”

Giancarlo Pontiggia, credits ph Dino Ignani

COMMENTO DI FABRIZIO FANTONI

Dopo “Il moto delle cose” Giancarlo Pontiggia torna a sorprendere il lettore con un’opera di rara intensità emotiva: “ Voci, fiamme, salti nel buio”, (Stampa 2009).

L’opera, divisa in due poemetti, – “Il camion e la notte” ed “Animula”- evoca un viaggio onirico che prende le mosse “in un vecchio cortile lastricato di beole grigie”.

E’ in questo spazio di quotidiana semplicità che ha inizio lo scivolare lieve e dolce tra le cose del mondo, quel “ perdersi in quei meandri favolosi/ sogni slanci chimere / tutto ciò che affonda nella vita”, che ti trasmette la gioia voluttuosa di perdersi in un oceano, la vertigine suprema di non essere più nessuno. Ci si ritrova così a contatto con la dimensione più autentica e vera della vita, che si squaderna davanti al lettore in tutte le sue forme, nel suo continuo farsi e disfarsi, nei suoi cambiamenti e nelle sue persistenze, mostrando “quanta notte è ovunque, quanto nero / tra le cose del mondo”. Questa lenta discesa all’origine del tutto è sottolineata dall’andamento della lingua che, da una pacata narratività dei primi componimenti, diviene – in particolare nel secondo componimento intitolato ”Animula”- sempre più magmatica: una moltitudine di materiale linguistico che prende direzioni inaspettate, raggrumandosi in forme inattese che si sfaldano per assumere nuova consistenza.

Il lettore si sente coinvolto dal martellìo costante della lingua e si trova a vorticare tra le parti che compongono il mondo, partecipando “all’inerzia delle cose”.

Con questi componimenti Giancarlo Pontiggia ci porta nella “notte, improvvisa, / con il suo mantello di nuvole scure…” in cui ha sede la poesia o, meglio, la sua origine.

La notte di cui parla Pontiggia altro non è che una dimensione spirituale in cui si ritrova il poeta nella più completa solitudine, in attesa che la parola si depositi.

Scrive Cristina Campo: “ come la manna di Sant’Andrea nella cavità dell’ampolla, il destino si forma nel vuoto in virtù delle stesse leggi complementari che presiedono al nascere della poesia: l’astensione e l’accumulo. La parola che dovrà prendere corpo in quella cavità non è nostra. A noi non spetta che attendere nel paziente deserto, nutrendoci di miele e locuste, la lentissima e istantanea precipitazione. Che è breve e non ripetibile”.

L’esperienza del sorgere della poesia ha qualcosa di simile ad una tensione mistica. Continua a leggere

Nella Collana Gialla della Memoria, Giovanna Sicari

La notte romana getta nell’acqua della madre dopo le madri
ma la cosa è ugualmente fragile e orfana:
i fiori, le statue di giugno, i giorni
caldi gravi di via Merulana
dove solo qui si è poveri in pace
e la ragazza con sandali ferma il tempo
sull’agenda stracciata, non è signora
né puttana né fiore all’occhiello
della serata ufficiale, mostra versi
al parlatoio dove il pianto del neonato
è quello di sempre
dove il pianto cresce e muore e poi ancora rinasce in un‟altra
rondine sul glicine al tempo balordo
con accento stonato. Lì il bambino cinese, Ahmed
o Mustafà raccolgono fiori e fortuna di derelitti
senza ritorno come abbandonati pellegrini
a cui nessuno chiede veramente se importa morire
rapiti e rapinati immersi in un sonno lieve straniero.

Torna in libreria dopo vent’anni nella Collana Gialla della Memoria Roma della vigilia, di Giovanna Sicari pubblicato in prima edizione con Il labirinto, nel 1999, uno dei testi “più perfetti e ispirati” dichiara Milo De Angelis nel Post-scriptum. In uno scritto che compare nel libro Giancarlo Pontiggia scrive: : “Riletto a vent’anni esatti dalla sua apparizione (Il Labirinto, 1999), Roma della vigilia ci appare, quasi fatalmente, come il libro in cui si devono fare i conti con la vita, una volta per tutte, e con l’urgenza di chi sa che i giorni sono davvero contati, che il tempo non è più nostro, se mai un giorno lo è stato”.

Giovanna Sicari (Taranto, 1954 – Roma, 2003) è stata poetessa e scrittrice. Dal 1962, con la famiglia, si trasferisce a Roma, nel quartiere Monteverde. Le sue prime poesie escono a partire dal 1982 sulla rivista Le Porte, quindi su Alfabeta, Linea d’Ombra, Nuovi Argomenti.

Dal 1985 al 1989 è redattrice della rivista Arsenale. A partire dagli anni Ottanta, inizia inoltre a lavorare come insegnante nel penitenziario di Rebibbia, a Roma, incarico che mantiene fino al 1997, quando si ammala gravemente. Dopo essersi sottoposta a interventi e cure prima a Roma, poi a Milano – dove nel frattempo si era trasferita col marito Milo De Angelis e il figlio Daniele – torna a Roma nell’estate del 2003, dove muore nella notte tra il 30 e il 31 dicembre. La raccolta di poesie di Milo De Angelis Tema dell’addio è a lei dedicata.

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