Roberto Esposito, “Vitam instituere”

Roberto Esposito

Concludiamo il nostro lungo ciclo di incontri di Catena Umana/Human Chain con un saggio inedito scritto per il blog Rai da Roberto Esposito, uno dei maggiori filosofi viventi, di origini campane. Mai come in questo momento la comunità mondiale si sente esposta al rischio di infiltrazione e di contagio da parte di elementi estranei, i virus,  tanto da dover tutelare la vita e delle comunità, all’interno dei propri confini territoriali.
L’intervento di Esposito, VITAM INSTITUERE, si rivolge agli uomini ai quali chiede, di sforzarsi sempre più a che l’Istituzione venga rinnovata.  “Non è possibile –  scrive Esposito – per gli esseri umani, cessare di istituire la vita.”

Luigia Sorrentino

 

 

VITAM INSTITUERE

di Roberto Esposito

Se dovessi nominare il compito cui il tempo del coronavirus ci chiama tornerei all’antica espressione latina ‘vitam instituere’. Senza ripercorrerne la storia – si tratta di un passo di Demostene, citato dal giurista romano Marciano nel Digesto –, veniamo al suo significato più attuale. Nel momento in cui la vita umana appare minacciata, e anche sovrastata, dalla morte, il nostro sforzo comune non può essere che quello di istituirla sempre di nuovo. Cosa altro è, del resto, la vita se non istituzione continua, capacità di creare sempre nuovi significati. In tal senso è stato detto da Hannah Arendt, e prima ancora da Agostino, che noi, gli uomini, siamo un inizio perché il nostro primo atto è quello di venire al mondo, iniziando qualcosa che prima non era. A questo primo inizio ne ha fatto seguito un altro, un ulteriore atto istituente, costituito dal linguaggio, che lo psicanalista francese Pierre Legendre ha definito seconda nascita. È da essa che ha preso origine la città, una vita politica che ha spinto quella biologica in un orizzonte storico. Non in contrasto con il mondo della natura, ma attraversandolo in tutta la sua estensione. Per quanto autonomo nella ricchezza delle sue configurazioni, lo spazio del logos, e poi del nomos, non ha mai potuto separarsi da quello del bios. Anzi la loro relazione si è fatta sempre più stretta, al punto che è divenuto impossibile parlare di politica sottraendola all’ambito da cui la vita si genera.
La prima nascita annuncia la seconda come questa si radica in quella. Perciò non è possibile, per gli esseri umani, cessare di istituire la vita. Perché è la vita ad averli istituiti immettendoli in un mondo comune. In questo senso la vita umana non è riducibile a semplice sopravvivenza – a ‘nuda vita’, per riprendere l’espressione di Benjamin. Essendo fin dall’origine istituita, la nostra vita non è mai coincidente con la semplice materia biologica – anche quando è schiacciata violentemente sulla sua parete. Anche in quel caso, forse mai come in esso, fin quando è tale, la vita rivela un proprio modo di essere che, per quanto deformato, violato, calpestato, resta tale – una forma di vita. A conferirle questo carattere formale – ulteriore rispetto alla semplice biologia – è la sua appartenenza a un contesto storico, fatto di relazioni sociali, politiche, simboliche. Ciò che fin dall’inizio ci istituisce, e che noi stessi continuamente istituiamo, è questa rete simbolica entro la quale quello che facciamo acquista significato e spessore per noi e per gli altri.

È proprio tale rete di relazioni comuni che il coronavirus minaccia di spezzare. Non solo la vita prima, ma anche la seconda – la socialità del nostro rapporto con gli altri. Naturalmente, come è evidente, per esprimersi, quest’ultima richiede intanto di essere in vita. Non c’è alcun accento riduttivo nel termine ‘sopravvivenza’. Anzi il problema della conservatio vitae è al cuore della grande cultura classica e moderna. Esso risuona nel richiamo cristiano alla sacertà della vita come nella grande filosofia politica inaugurata da Hobbes. Mantenerci in vita è il primo compito al quale questo maledetto virus ci richiama in una sfida mortale. Ma, dopo la prima vita, insieme a essa, dobbiamo difendere anche la seconda, la vita istituita e solo perciò capace a sua volta di istituire, di creare nuovi significati. Perciò, nel momento stesso in cui facciamo di tutto, come è fin troppo comprendibile, per restare in vita, non possiamo rinunciare all’altra vita – alla vita con gli altri, per gli altri, attraverso gli altri. Ciò, al momento, non è consentito e anzi è vietato, come è giusto e logico che sia. Continua a leggere

Giulia Napoleone, “Le fragilità dentro e fuori di me”

In questi mesi di pandemia io ho apparentemente fatto la stessa vita degli ultimi dieci anni, cioè dal mio rientro dalla Siria.

Niente di diverso. Chiusa tra casa, studio e giardino, ho vissuto tempi di completo isolamento, lavorando per molte ore, punto su punto, riga su riga, tra musica e poesia.

Ho alternato in questi anni lunghi periodi di isolamento e lavoro a viaggi anche frequenti, brevi o lunghi che fossero, sempre con accurate e precise preparazioni. Questo insieme mi ha consentito un giusto equilibrio di vita, di rapporti, partecipazioni, incontri con “l’altro da me”.

Il viaggio non è per me solo spostamento, non è lasciare un luogo per arrivare ad un altro.

Disegno di Giulia Napoleone

Per me viaggiare è una condizione, una necessità vitale che mi permette il raggiungimento di quell’equilibrio di cui sono alla costante ricerca.

Equilibrio tra geometria e natura, ordine e caos, realtà e sogno, concentrazione assoluta e mondo esterno.

Essere privata dalla possibilità di viaggiare, di questa risorsa essenziale mi ha quindi creato in questi mesi un grande disagio.

Ho continuato a lavorare, spesso al limite delle mie energie, ma quello che è profondamente cambiato è lo spirito con cui ho affrontato le mie giornate di lavoro. Giorni trascorsi con profonda tristezza per le notizie, le immagini, le incertezze, la perdita di tanti amici.

Disegno di Giulia Napoleone

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Una poesia di Milo De Angelis

NEMINI

Sali sul tram numero quattordici e sei destinato a scendere
in un tempo che hai misurato mille volte
ma non conosci veramente,
osservi in alto lo scorrere dei fili e in basso l’asfalto bagnato,
l’asfalto che riceve la pioggia e chiama dal profondo,
ci raccoglie in un respiro che non è di questa terra, e tu allora
guardi l’orologio, saluti il guidatore. Tutto è come sempre
ma non è di questa terra e con il palmo della mano
pulisci il vetro dal vapore, scruti gli spettri che corrono
sulle rotaie e quando sorridi a lei vestita di amaranto
che scende in fretta i due scalini, fai con la mano un gesto
che sembrava un saluto ma è un addio.

(da Linea intera, linea spezzata di prossima pubblicazione da Mondadori) Continua a leggere

Roberto Esposito, “Il fragile equilibrio fra comunità e immunità”

Roberto Esposito

IL DOPPIO VOLTO DELL’IMMUNITA’

DI ROBERTO ESPOSITO

Bisogna stare attenti a non ridurre il significato del concetto di immunità a un’esperienza recente, di carattere medico o giuridico, volta a chiuderci entro confini difensivi nei confronti dell’altro. Ciò non è sbagliato, ma va inserito in un orizzonte più ampio, adottando uno sguardo di lungo periodo.

Da questa prospettiva, per così dire genealogica, l’immunità, o l’immunizzazione è un paradigma attraverso il quale è possibile rileggere l’intera storia moderna. Se l’esigenza di autoprotezione della vita caratterizza tutta la storia umana, rendendola possibile, è nella modernità che essa viene percepita come un problema fondamentale, e dunque come compito strategico.

Privati delle protezioni naturali di carattere teologico che avevano caratterizzato la stagione premoderna, gli uomini sentono il bisogno di costruire dei dispositivi immunitari di tipo artificiale per proteggersi dai mali, dai conflitti e anche dalle novità che li minacciano, il primo dei quali è lo Stato moderno.

Quanto accade oggi non è che l’ultimo passaggio, sempre più accelerato e quasi ossessivo, di questo processo. Quello cui assistiamo, insomma, è uno straordinario mutamento di scala di un processo risalente nel tempo. Per capire il fenomeno in tutto il suo rilievo, storico, filosofico, antropologico, non dobbiamo smarrire la complessità del meccanismo di immunizzazione, evitando ogni semplificazione polemica o retorica.

Esso è un processo ambivalente, che produce effetti contraddittori. L’immunizzazione è allo stesso tempo necessaria e rischiosa, protegge dai rischi e ne genera a sua volta altri. È necessaria perché nessun corpo individuale o collettivo potrebbe sopravvivere a lungo senza un sistema immunitario che lo protegga da conflitti insostenibili – per esempio senza il sistema immunitario del diritto una società esploderebbe. Ma è rischioso perché, oltre una certa soglia, l’eccesso di protezione rischia di bloccare l’altra esigenza umana fondamentale che è quella della comunità, cioè della relazione tra gli uomini.

Il problema che abbiamo anche oggi di fronte non è quello, semplicistico, di contrapporre comunità e immunità, ma articolarle in una forma sostenibile che non sacrifichi l’una a favore dell’altra. Certo, oggi, forse mai come oggi nel corso di tutta la storia, assistiamo ad una crescita abnorme dell’esigenza immunitaria. Essa è diventata il perno intorno al quale ruota tutta la nostra esperienza reale e simbolica, il punto d’incrocio di tutti i linguaggi – biologici, giuridici, politici, economici. Riguarda insieme il corpo individuale e il corpo collettivo, il corpo sociale e il corpo informatico, tutti in difesa contro i virus di vario genere che li attaccano o sembrano attaccarli.

In questo modo l’equilibrio tra communitas e immunitas sembra spezzarsi a favore di quest’ultima. Il limite appare superato, con la conseguenza di ridurre al minimo non solo la vita in comune, ma perfino la libertà individuale. Il rischio ultimo cui le nostre società immunizzate vanno incontro è quello che si sperimenta durante le malattie autoimmuni, quando il sistema immunitario è talmente forte da rivolgersi contro lo stesso corpo che dovrebbe proteggere, distruggendolo.

Si è visto che questo – un eccesso di difesa da parte degli anticorpi – è quanto accade anche nel covid 19, con l’esito di infiammare i polmoni, come scrive nel suo ultimo libro sull’immunità – Il fuoco interiore – l’immunologo Mantovani. Qui si determina il classico controeffetto delle procedure immunitarie quando sono spinte aldilà della loro funzione normale. Continua a leggere

Valerio Magrelli, “violando l’ambiente l’uomo distrugge se stesso”

Valerio Magrelli credits ph Dino Ignani

UNA MODESTA PROPOSTA
DI VALERIO MAGRELLI

Era del 1969 l’articolo di Gregory Bateson Patologie dell’epistemologia. Lo si trova nel volume intitolato Verso un’ecologia della mente (Adelphi, 1991). Solo per dire che, oltre mezzo secolo fa, lo studioso aveva già perfettamente analizzato la situazione in cui ci troviamo in questi mesi. Il mio intervento si riduce a un semplice, sentitissimo invito: proporre l’adozione del suo testo nelle scuole dell’obbligo. Nient’altro. E passo adesso a riassumerne brevemente qualche pagina.

L’intervento denuncia gli errori epistemologici commessi dalla civiltà occidentale, a cominciare dai danni del Positivismo. In armonia con il clima di pensiero che predominava verso la metà dell’Ottocento in Inghilterra, Darwin formulò una teoria della selezione naturale e dell’evoluzione in cui l’unità di sopravvivenza era la famiglia, la specie, la sottospecie o qualcosa di simile. Oggi, però, sappiamo che l’unità di sopravvivenza nel mondo biologico reale non è questa: l’unità di sopravvivenza è piuttosto L’ORGANISMO PIÙ L’AMBIENTE.

Stiamo imparando sulla nostra pelle che, distruggendo il suo ambiente, l’organismo distrugge se stesso. Con la pandemia, aggiungo io, stiamo vedendo cosa accade quando si commette l’errore epistemologico di scegliere l’unità sbagliata.

Nella loro forma più virulenta, le idee che dominano oggi la nostra civiltà risalgono alla rivoluzione industriale, e si possono riassumere così: noi contro l’ambiente; noi contro altri uomini; l’unica cosa importante è il singolo (o la singola compagnia o la singola nazione); possiamo avere un controllo unilaterale sull’ambiente e dobbiamo sforzarci di raggiungerlo; viviamo all’interno di una frontiera che si espande all’infinito; il determinismo economico è cosa ovvia e sensata; la tecnica ci permetterà di attuarlo.

Ora, alla luce delle grandi ma in definitiva distruttive conquiste della nostra tecnica negli ultimi 150 anni, tutte queste idee, spiega Bateson, si sono dimostrate false. La moderna storia ecologica (e l’attuale contagio da virus, torno a sottolineare io) dimostrano che, violando il proprio ambiente, la creatura distrugge stessa. Possiamo dire anzi (continuo a parafrasare un saggio di cinquant’anni fa…) che tutte le attuali minacce alla sopravvivenza dell’uomo sono riconducibili a tre cause originali: 1) progresso tecnico; 2) aumento della popolazione; 3) errore nel pensiero e negli atteggiamenti della cultura occidentale. Insomma, i nostri valori sono sbagliati perché la maggioranza degli uomini è ancora guidata da un’epistemologia errata. La nostra insensata volontà di concentrarci sulla vita dei singoli individui, ha creato, nell’immediato futuro, la possibilità di una catastrofe mondiale. Continua a leggere