Addio al grande poeta Franco Loi

Franco Loi, American Academy in Roma, 3 maggio 2012/ Credits ph. Luigia Sorrentino

NOTA DI FABRIZIO FANTONI

Si è spento il 4 gennaio 2021, all’età di novant’anni, Franco Loi, uno dei più grandi poeti del novecento.
Solo pochi mesi fa, se n’era andata la moglie, Silvana Loi, appassionata studiosa di arte e letteratura e vera compagna del poeta.
Franco Loi era nato a Genova nel 1930, da padre cagliaritano e madre emiliana, ma vissuto fin da piccolo a Milano – dove si trasferisce all’età di sette anni- approda alla poesia a quarantatré anni, nel 1973 con la raccolta I Cart alla quale seguono Poesie d’amore (1974), Stròlegh (1975) e Teater (1978), L’angel (1981), L’Aria (1981), Lunn (1982), Bach (1986) e molte altre.

Sin dalle prime prove la poesia di Loi è segnalata dall’uso di un inventivo dialetto milanese di periferia, che trova la sua origine in una commistione tra la parlata proletaria e quella degli immigrati dalla campagna, spesso mescolata con elementi tratti da altri dialetti e lingue straniere.

Il dialetto di Loi non è il frutto di una semplice regressione “materna “ alle origini, ma qualcosa di molto più profondo e densamente emotivo: è – come scrive lo stesso Loi “la lingua di ciò che tace dentro di noi e che si rispecchia nell’infinito, la lingua delle nostre divine incoscienze”.

Lingua, dunque, di elezione e di storia che si fa espressione di una scelta di classe socialmente impegnata.
Scrive giustamente Mengaldo “. Rifiutando, con voluto e minaccioso anacronismo, ogni mediazione e orizzonte borghese, Loi si concentra tutto nella rappresentazione di un mondo popolare che, giusta l’inevitabile tristezza storica che intride gli ideali del poeta, ha i toni stridenti e sinistri della disperazione senza via d’uscita, sulla linea della più nera letteratura popolare dell’Ottocento e del primo Novecento…”.

Da Stròlegh

II

E dansi, furli,
e ’n’ambra glissetera m’involg,
la sbiava, la m’unda tra i cȃ sbiess,
che ‘l cör ciuscatt par brascia ’n’üseléra
d’aria bibiana e de smiròld beless…
Bel zéfir,brisa,
galȗpp d’un Casurett!
Tra mí e i mund franguell gh’era ’n strighèss
ch’i bej revèrber e i tumbin secrett
me curr incuntra, e fan festa, e i stell
legriusen ’n’alamanda ai grund che scend,
e mí, l’è ’nfiur, un ciall, un va de firisèll
al durbià del timid che nel venter
se tegn scundü ’me se tegn l’üsèll…
Grí San Maternu,
Bianca Maria de semper,
mia edicula, scirossa di cantun,
pulver di òmm che passa e par che stemper
s’inultra al dí luntan che vegn lirun,
sfrûs sass di strȃd, umbrius tumbin che ria,
aria de Casurett, scür trani siún,
uh sí, ve tucchi, sí, ve parlaría,
ma quanti vus, quanti respir al vent!
e ’sta manfrina de la fantasia
che per la piassa dansa sciabelent…
E al spiöv di lüs lampiun
saltrella e slisa el furbol di record,
traversa el vent.

E danzo, furlo,
e un’ambra profumata e fuggitiva
mi avvolge, fa impallidire e sbiadisce gli oggetti,
mi trascina come un’onda tra le case sbilenche,
che il cuore che vuole ubriacarsi sembra abbracciare un’uccelliera
di un’aria interminabile e fresca e pregna di balenanti bellezze…
Bel vento di ponente, brezza, ragazzo vagabondo di un Casoretto!
Tra me e i mondi fringuellanti c’era un intrico di sortilegi
che i bei riverberi e le fogne segrete
mi corrono incontro, e fanno festa, e le stelle
improvvisano l’allegria di un ballo allemando alle grondaie che scendono,
e io mi sento un fiore in un giardino di fiori, un chiaccherare,
un andare come sorsate di vino chiarello frizzo
allo svolgersi dubitoso della più intima timidezza che nel ventre
si tiene nel buio nascosta come si tiene l’uccello…
Capriccioso-fantastico San Materno,
chiesa di Santa Maria Bianca di sempre,
mia edicola della giornata, turbine di polvere agli angoli delle strade,
polvere degli uomini che passano e sembra che stemperata in aria
s’inoltri verso il giorno lontano che viene pigramente,
furtivi sassi delle strade, ombrose condutture che scorrono,
aria di Casoretto, buie osterie da succhiavinacci,
oh sí, vi tocco, sí, parlerei con voi,
ma quante voci diverse, quanti respiri porta il vento!
e questa danza monferrina della fantasia
che per la piazza balla a gambe sciabolanti…
E, allo spiovere delle luci dai lucenti lampioni
schizza e saltella e rade la strada il gioco del pallone dei ricordi,
l’attraversa il vento.
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Roberto Mussapi, “Epifania in poesia”

Roberto Mussapi

COMUNICATO STAMPA

Casa della Poesia, Milano

 

mercoledì 6 gennaio, ore 19:30 – DIRETTA YOUTUBE “PREMIERE: https://youtu.be/OuV5HA-w68M

EPIFANIA IN POESIA (30′)

a cura di Roberto Mussapi

                    

La poesia vive di epifanie, di apparizioni, di illuminazioni. Nel 2021 l’Epifania si nutrirà di poesia: quella di Roberto Mussapi, di T.S. Eliot, di Rainer Maria Rilke e di William Butler Yeats.

“L’Epifania è la festa dell’Apparizione, di una realtà impalpabile ma visibile che prende forma. Epifania è un termine greco (ἐπιϕάνεια, «manifestazione»), usato nella sfera religiosa per indicare l’azione di una divinità che si manifesta attraverso un segno. Nel caso della nascita di Cristo, la stella che i sapienti Magi videro e seppero interpretare, dalla lontana Persia, e che i pastori analfabeti colsero nell’inebriante potente splendore.

Ecco perché l’etimologia stessa di questo giorno lo rende festa della poesia, che tramuta in realtà percepibili dai sensi (la poesia è scritta, si legge, se recitata la si ascolta) apparizioni incorporee. Epifania, festa dell’apparizione, rima non a caso con Poesia. Continua a leggere

Tomaso Kemeny, da “Per il lobo d’oro”

Tomaso Kemeny

Il racconto autobiografico di Tomaso Kemeny,Per il lobo d’oro“, (Effigie 2020) copre quaranta anni del Novecento, dal 1938, anno di nascita dell’autore a Budapest, fino al 1978 a Milano. L’azione include la caduta di suo padre sul fronte russo e la successiva “invasione-liberazione” dell’Ungheria da parte dell’Armata rossa.

Nel 1947 Kemeny viene adottato dal patrigno e nel 1948 la famiglia fugge dall’Ungheria per non venire deportata.

L’avventura esistenziale vede l’autore, peso medio negli Stati Uniti, sul ring di Chicago. Segue l’incontro con André Breton e le esperienze d’avanguardia nella Milano degli anni Settanta. Il libro evoca i labirinti di libertà percorsi e costruiti da un poeta nostro contemporaneo.

ESTRATTI

Il libraio Michele Morale, fu il mitico libraio di Piazza Piola A Milano. Più che vendere libri e CD si sforzava di fornire nutrimento culturale agli avventori. Era dotato di due lobi piuttosto pronunciati, e io ,scherazando, cercavo di tirarglieli, ma lui opponeva resistenza. “Professore, se lei fose una bella ragazza o Napoleone, le lascerei tirare i miei lobi, ma così…” Bisogna sapere che io gli avevo raccontato che mio nonno, Gyula, un cultore di Napoleone, da bambino raccontò come l’Impereur, in segno di benevolenza, soleva tirare i labi dei suoi guerrieri. Un giorno il Sig. Morale mi disse:” Le sue poesie, per quanto interessanti, vendono pochino. Perchè non scrive un romanzo, forse riuscirebbe a raccogliere un po’ di soldi…”.

Quando il caro Morale, con cui mi piaceva anche prendere il caffè, la mia abitazione essendo vicina al suo negozio, ci lasciò, decisi che avrei dedicato un mio lavoro in prosa, appunto, questo “Lobo d’Oro”. Decisi di fare l’autobiografia dei miei primi quarant’anni(1938 -1978) trascivendo di getto ciò che la mia memoria riusciva a custodire.

Era Natale a Budapest, l’albero era illuminato da candeline, non c’erano ancora quelle lampadine elettriche di oggi. L’albero, a un certo punto, oscillò per poi rovescirsi, incendiando il nostro salotto.

Fu mi Padre a spegnere il fuoco che stava divorando tappeti e tendaggi. Papà poi partì volontario in guerra per liberare la Transilvania, antica Patria magiara, ora rumena. Purtroppo la guerra si spostò sulla pianura russa, dove Papà cadde combattendo. Quando,nni dopo, l’Armata Rossa stava travolgendo gli eserciti germanici e maguari, mia Madre, la donna più bella di Budapest, chiese alla mia bambinaia, Miaria, di portarmi al sicuro a Gonyu. Maria si era appena sposata con Otto, capitano della flotta ungherese che presidiava il sacro Danubio, che ci portò a destinazione con la sua nave. Mentre i sovietici bombadavano a tappeto Budapest, io in campagna fui felice che mai, totando fiondate con i contadinelli, correndo per i campi, e per quanto le bambine mi paresser insignificanti, una bambina bionda, Rozsika, si immaginava di essere la mia fidanzata.

Purtroppo la mamma ebbe torto, l’Armata Rossa puntò sulla città di Gyor, a pochi chilometri da Gonyu. Il drappello di soldati tedeschi, comandati a non ritirarsi, e un giovane ragazzo di 16, anni, il fratello di Rozsika, morirono mentre avanzava l’Armata di migliaia di elementi. Non sapendo cosa facesserò i nazisti, io salutai l’arrico dei “barbari” con un “hei Hitler”. Ma i russi non facevano male ai bambi, li feci ridere, anche se più avanti, mi posero una mela sulk capo giocando a fare i Guglielmo Tell, per fortuna avevano buona mira. Oltre uccidere il pollame , i maiali e buttare bombe a mano nel Danubio per pescare senza fatica i pesci, i guerrieri “liberatori” si impegnarono a violentare le ragazze. Una vecchina, Veruska, di 70, ancora vergine e malata di tipoo, fu vilata a turno da sette soldati. Sculettava per l’aia ridendo e gridando “mi hanno violentata”. Il Pastore calvinista pensava avesse perso la mente, ma in realtà era felice di avere finalmente assaporata le verigini della sessualità, così dicevani i contadini, ridendo della sua allegria, in contrasto con la situazione di essere derubati, violati umiliati. Tra l’altro i russi rubanavano l’orologio a tutti, e nella loro ignoranza, quando l’orologio si fermava , lo buttavano via, pensando che l’animaletto tic-tac fosse defunto. Mia Madre mi venne a prendere e trovai Budapest invasa da truppe risse, inglesi, americane e francesi. Gli americani distribuivano caramelle e frutti (vidi la prima banana),Gli inglesi difendevano le donne dao tentativi di violenza dei sovietici, i francesi agitavano la lro bandiera tricolore sul “famoso” Ponte delle Catene”, sul Danubio. Anni dopo gli stalinisti ungheresi nazionalizzarono la notra fabbrica e offrirono al mio padre adottivo di diventarne il Direttore,dopo essersi iscritto al Partito. Ma anche il secondo Papà era un eroue.Fece due nni di lavori forzati durante il governo nazionalista in quanto pacifista. Rifiutò di iscriversi al partito dicendo di essere socialdemocratico e contrario al partito unico. La stessa notte dovemmo fuggire per non essere deportati come “nemici del popolo”. Un compagno comunista pacifista, che aveva subito il campo di lavoro insieme a Papà, di notte ci offrì i passaporti falsi, e mio Padre, campione nazionale di pallanuoto negli anno ’30, figurò come massaggiatore, della squadra di calcio dell’Ujpest, e abbandonammo il paese comodamente in aereo, atterrando a Venezia, In seguito chiedemmo l’asilo politico e fummo internati nrl campo profughi a Banoli, vicino a Napoli. Qui,strisciando sotto i fili spinati del campo, uscii per giuocare a calcio con i ragazzi napoletani (e da allora sono diventato tifoso della squadra del Ciuccio, del Napoli). Mi padre parlando sette lingue, fu chiamato a lavorare a Milano. Ma scendemmo a Firenze a vedere questa meravigliosa Atene conrtemporanea, come diceva la mamma. Mi innamorai delle Madonne di Rafaello, figure materne che tutto mi paiono perdonare. La Mamma voleva vedere la casa di Michelangelo, il vigile, a nostra sorpresa, pensò che cercasse una casa di moda. Papà osservò :”nemo propheta in patria”. Do po anni a Milano,dove iniziai a frequentare le elementari, ebbi una borsa di studio per gli Stati Uniti. A Chicago, nella Swift High School, soffrìi un rito di iniziazione .”Dp you want to fifght?”, mi disse un ragazzo-armadio. Dissi “Yes!” e fui picchiato a sangue. In seguito frequentai una palestra a La Salle Street, e scoprìi di avere un gancio di sinistro irresistible. Nella stessa palestra venne il grande Sugar Ray Robinson, che mi disse “com quel sinistro arriverai in alto”. Mi chiamarono “Absolute Tiger” dopo che al primo round vinsi 4 partite da dilettante. Il pubblico scometteva sulle nostre “match”. Con Sugar feci non solo footing lungo La Salle Street, ma un giorno ballammo con niente di meno che Abbe Lane( con la magnifica ho fatto due passi!). Il quinto incontro fu fatale, il mio sinistro fece solo il solletico a quel fenomeno di colore che mi inviò direttanmente all’ospedale e così addio pugilato e avanti tutta con la poesia. Continua a leggere

Milo De Angelis e il De Rerum Natura di Lucrezio

Dopo tanti rinvii è finalmente arrivato l’appuntamento con Lucrezio e con Milo De Angelis, il prossimo giovedì, IN STREAMING sul CANALE YOUTUBE della Casa della poesia di Milano.

giovedì 26 novembre, dalle ore 19:30 alle 20:15 – DIRETTA YOUTUBE “PREMIERE”: https://youtu.be/UDjy-nYUflM

Milo De Angelis parla del De rerum natura di Lucrezio

a cura di Milo De Angelis

Milo De Angelis parla del De rerum natura di Lucrezio e presenta alcune sue nuove traduzioni.

Letture di Viviana Nicodemo.

LINK PER DIRETTA VIDEO

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Tommaso Di Dio, “Il silenzio, l’assedio”

Tommaso Di Dio

DI TOMMASO DI DIO

Una qualità di silenzio unica, inaudita. Milano, come tante altre città d’Italia e del mondo, è stata fagocitata per alcuni mesi da uno stato di sospensione e apnea. È come se tutta la città e i suoi cittadini avessero smesso di respirare. La città è stata sommersa da un liquido invisibile: aveva il peso del piombo ma era come trasparente, un etere oscuro che, anche di notte, si adagiava come una pellicola sulle facciate delle case, dalle cui finestre rilucevano a centinaia le stanze dove erano intrappolate in una luce d’acquario cose affetti persone.

Mi è davvero difficile spiegare a parole quanto quel silenzio sia stato profondo, sconvolto. Confido che chi qui mi sta leggendo ne abbia una qualche esperienza. In queste settimane ho provato più volte ad ascoltarlo, a dirlo a me stesso, a pensarlo; ma niente, qualcosa sfuggiva, restava inerme al di là dello sguardo. Nella città dove vivo, anche a tarda notte, d’estate, se si tace e si ascolta a finestra aperta, di solito è possibile sentire il grande ronzio delle circonvallazioni, dove operai, automezzi, centraline, termovalorizzatori e ventole, continuano il proprio moto senza mai fermarsi. È il grande boato della città, il rumore bianco del suo sangue in circolo per le strade e le arterie nel suo corpo gigante, che si allarga fino ai confini della Lombardia, con i suoi 10 milioni di abitanti, immerso e connesso dalle sue macchine e strumentazioni, da cui la vita umana occidentale non può più prescindere. Nei mesi feroci della pandemia, gran parte del movimento di questi corpi pesanti è stato abolito; è rimasto invece lo spettrale movimento della luce e delle radiotrasmissioni: la luce che scorreva inesausta per le fibra sotterranea, entrava in ogni palazzo, risaliva i muri, pulsava, mentre il campo del 4G avvolgeva ogni nodo, ogni singolo device alla rete internet mondiale. Il silenzio di questi mesi, infatti, la sua particolare densità, non è stato causato dalla semplice assenza dei motori; è stato tutt’altro dal silenzio che si avverte quando si è dentro un bosco, in mezzo al mare, sulla cima di una montagna. Quello che abbiamo provato è stata invece l’ostinata presenza, finalmente resa palpabile dal diradarsi dei corpi visibili, del moto infinito dei dati che illuminano i nostri schermi. Quel silenzio erano onde, vaste, continue, pulsanti, di informazioni, paranoie, dolori, terrori, paure, speranze, cazzeggio, notizie, faccine. Tutto ciò che agitava il pensiero degli umani, ogni loro spostamento emotivo, era impercettibilmente tradotto in questo scroscio ondulare, frenetico, isterico che finalmente occupava, da solo, lo spazio della terra. Umano e macchinico insieme, ho sentito per la prima volta con la più grande forza questo respiro che è letteralmente l’indescrivibile contemporaneo, il suo sostrato materiale, il fondo brulicante di ogni nostro discorso. A volte, mi affacciavo dalla finestra, guardavo la strada, guardavo le altre finestre; cercavo di cogliere i minimi movimenti della gente, cercavo di sentire cosa si dicevano, cosa provavano dietro le tende, dietro i portoni, cosa si agitava all’interno di quegli spazi chiusi e sigillati e potevo vedere, con una chiarezza mai prima avuta, il fascio di dati che trasudavano e, rivolta contro quegli stessi corpi, a distruggerli, a farli scomparire in un fuoco interno, l’assedio di una forza centripeta, che poteva essere ovunque, che dilagava, che si espandeva. Continua a leggere