Umano scarto. La consapevolezza gnoseologica di Mario Benedetti


di Alberto Russo Previtali

La morte di un uomo, come ha insegnato Pasolini, è l’evento finale che ridispone a posteriori gli elementi della sua vita e li fissa in una storia. Nel caso di un poeta, dà una voce definitiva ai suoi versi. La morte di Mario Benedetti, il suo essere tra i fragili sommersi dall’onda invisibile dell’epidemia, è una fine che fa risuonare la sua voce poetica con una tagliente necessità. Nel tempo della catastrofe, che svela a livello planetario la precarietà radicale su cui è costruita ogni vita individuale e collettiva, muore un poeta che ha fatto dell’esplorazione ossessiva di quella precarietà il centro pulsante della sua opera. Per un gioco della storia, Benedetti, poeta dello spaesamento e dell’umano ricercato nell’“umiltà / delle cose minute” in un tempo votato all’efficienza e al calcolo, ritrova, nell’eccezione della catastrofe, una sua impellente giustezza. Ciò accade nel momento in cui sprofonda l’idea stessa di attualità abitualmente intesa, e nella narrazione del quotidiano s’impone una verità normalmente invisibile agli individui rapiti dalla loro vita in società, ridotti nel grande numero ad essere “una cosa, / tante cose animate, un testardo sentire obbligato”.

In diversi luoghi di Tersa morte il poeta mette il dito sulla distrazione degli uomini sprofondati nella loro inautentica quotidianità, nell’impersonalità di “prole serva di vita, superba” assorbita da un irriflesso “continuo affaccendarsi”. Nessun moralismo, nessuna retorica in questa critica che risuona come tale senza intenzione, poiché si dà come riscontro di uno sguardo postosi al di là del commercio delle cose del mondo. Ed è questa la sua forza, lo scaturire da una visione che si pone nell’imminenza di un al di là del presente, di un al di là della parola: “Futilmente presente è la parola, anche questo dire”. Continua a leggere

Lo sguardo ripensato di Mario Benedetti

Mario Benedetti, Credits ph. Dino Ignani

di Carmelo Princiotta

 

Rileggo Umana gloria. Le poesie di Benedetti sono spesso scritte come un ripensamento dello sguardo. I suoi verbi fondamentali sono guardare (anche vedere) pensare, dire, andare e venire. L’io è uno sguardo: «Io che sono delle cose negli occhi / ma non so dire come sono quando le guardo». E le cose? «Le cose che si vedono / sono storie di gente morta». Oppure: «Le cose arrivano dalla pubblicità / o da dentro i suoi occhi / dove nessuno vede perché ci sono solo i morti». Friulano estremo, come annunciato da Slavia italiana e Slovenija, Benedetti ha poi vissuto altrove, pur continuando a scrivere di quella frontiera, e da una frontiera non più geografica ma diciamo pure metafisica, quella fra vivi e morti.

L’andare è quasi sempre un andare via. Benedetti è un poeta del mancamento: il suo tempo prediletto è l’imperfetto. Ha una percezione elegiaca del tempo, un sentimento della vita come perdita. E si direbbe che a volte gli manchino le parole così come gli mancano i morti o come gli è mancata la terra sotto i piedi, durante il terremoto del ’76. In fondo alla poesia di Benedetti c’è In fondo al tempo, con la sua scena tellurica primaria: «Il terremoto improvviso / come il morto che viene alla spalla per farci sentire / improvvisa la luna, la luna, la luna». «Scrivo per fratture» ha detto in un’intervista. E davvero a volte i suoi passaggi strofici, i suoi vuoti sintattici, sono delle crepe che rischiano di inghiottirci, come le gole del pavimento o come «la bocca dei defunti». Così è per il vuoto, ma anche per il pieno, gli elenchi nominali in cui le cose si accatastano come in un crollo, alla rinfusa, pezzi di vita, vite fatte a pezzi. Niente è al suo posto, tutto è dislocato, incongruo: «Sono venuti giù i sassi, / il letto ha detto la zia aveva una pietra grossa nel mezzo. / Siamo scappati via dagli occhi, il vento nella testa». È la surrealtà dei terremoti, in cui tutto si dispone come in una fiaba del terribile. Molte poesie di Benedetti sono fiabe del terribile. L’inanimato si anima, tutto si muove. Si avvicina e si allontana, distorcendo la percezione del quotidiano: «Vengono vicini enormi i ceppi, le scale / i cerchi delle botti, come per andarsene». La realtà si ferma solo nei quadri. Chissà se è da qui che viene l’ossessione pittorica di Benedetti. Ferma vita è una poesia di augurio, uno dei pochi testi che si aprono al futuro, verbo che in poesia s’impara a coniugare da Fortini. È tutto un saliscendi in questa poesia, tutto un andirivieni. Per fermare le cose bisogna ripensare lo sguardo che le ha viste, amate, perdute. Il verbo più toccante di Mario Benedetti è il verbo stare, seguito a ruota dal verbo tenere, tenere insieme, come in Quadri. Tutto va via, anche gli occhi, di cui è disseminata questa poesia: «I tuoi occhi con i nomi delle mele e delle pesche».

La «visione intera» si scompone. Si ha una percezione metonimica del mondo. Tutto perde consistenza, tanto che c’è poi bisogno di ridire che cosa è l’io, che cosa sono le cose. Tutto è sempre qualcos’altro. La prima incongruità di questa poesia è il verbo essere, a meno che non venga modulato dallo stupore infantile della favola, del sogno: «C’era…». Oltre alla scomposizione, c’è una sovrapposizione, come in dissolvenza: «Era perché non poteva restare niente di tutto questo / che gli occhi facevano i matti». Si ha una percezione analogica del mondo, che certo Benedetti mutua da Milo De Angelis, ma poi riconverte nelle sue particolari dissolvenze, o, con termine zanzottiano, sovrimpressioni, come nella splendida Log, Ambleteuse, dal titolo che giustappone Slovenia e Francia all’indimenticabile finale: «E un albero di fiori / sale sullo slargo della marea / perché la mano è così, amore, / lei va alta fra i tuoi capelli», con quell’insensato e strepitoso connettivo, che fa un sorgere da un gesto il paesaggio fino a confondere gli amanti e ciò che guardano, o pensano a occhi chiusi: la mano con l’albero di fiori, i capelli con lo slargo della marea. Perché nelle poesie friulane di Umana gloria, quasi sempre le più belle dell’intero libro, le persone portano con sé i paesaggi: «Davanti il cielo che è venuto insieme a lui / gli alberi che sono venuti insieme a lui». Tutto è però ferito dalla natura, e dalla cosiddetta civiltà, dalle sue fabbriche, fibre sintetiche, pubblicità. Non per niente, dietro la «povera umana gloria» di Benedetti ci sono le «povere forme eterne» di Pasolini. Continua a leggere

Franco Buffoni, una poesia da “La linea del cielo”

Franco Buffoni

Erano bianche rosse allineate
Le macchinette nel cortile,
Ci giocavo d’estate all’ombra
Col pensiero, le spostavo di nascosto
Ogni giorno anche in vetrina.
Finalmente a Natale ne ebbi sei
Tre rosse tre bianche tutte in fila
Da spostare a mia voglia
Sul balcone, ma le dimenticai
Abbastanza presto, e l’anno dopo
Le regalai a un bambino vero.
Ora qui sopra Linate nel sole
In fase di attesa di atterraggio
Mi sembra di toccarle e di giocarci
Bianche e rosse tra i tetti
Piatti e pochi platani
Due pini, una vetrina dall’alto
Terzo giro e subito riprende quota
Le regalo anche queste
Sono grande non gioco.
Da: La linea del cielo, (Garzanti, 2018) Continua a leggere

Paolo Lagazzi, “Come ascoltassi il battito d’un cuore”

Attilio Bertolucci e Paolo Lagazzi

Per quanto amato da molti lettori di poesia, per quanto profondamente stimato da alcuni tra più grandi poeti del Novecento non solo italiano (da Montale a Luzi, da Sereni a Caproni, da Pasolini a Charles Tomlinson a Kikuo Takano), Attilio Bertolucci resta un autore ancora, in parte, misconosciuto e incompreso. Solo una lunga frequentazione del suo mondo poetico può permettere di cogliere la complessità e la ricchezza che si annidano nell’apparente semplicità del suo linguaggio. Paolo Lagazzi, riconosciuto dallo stesso Bertolucci (in un’intervista apparsa nella rivista “Gli immediati dintorni”, n.2, 1989) come colui «che forse più di ogni altro mi ha letto in estensione e in profondità», ripercorre negli scritti raccolti nel presente volume alcuni tra i capitoli decisivi della storia del poeta: l’inesausto amore per la pittura; la passione per le opere di Proust e di Eliot; l’affinità elettiva con un originalissimo, fantastico e umano storyteller quale Silvio D’Arzo; il lavoro svolto con leggerezza e lungimiranza nei campi del giornalismo e dell’editoria; il dialogo tra la sua poesia e il cinema del figlio Bernardo.

Soprattutto, questo libro ci porta di nuovo a osservare i “nodi” più segreti e cruciali del mondo bertolucciano: la religiosità sui generis, il sentimento del sacro, l’incontro fra un bisogno primario di verità e un’acuta coscienza della vita come mistero.

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Siriana Sgravicchia, “Il romanzo di lei”


Nella narrazione di romanzo, che Virginia Woolf ha definito simile a una tela di ragno, vi sono incontri degli autori e delle autrici con i libri del passato e del presente, i quali definiscono tutti insieme uno spazio discontinuo in cui ogni scrittura si prolunga oltre la soglia del singolo testo e oltre le cronologie creando talvolta fratture o anche abissi, altre volte territori di condivisione. Il volume propone un percorso critico attraverso romanzi di autrici italiane rappresentative dal secondo Novecento a oggi (Banti, Ceresa, Ortese, Morante, Ramondino, Sapienza, Ferrante). Il discorso nel suo complesso non intende presentare un canone ma disegnare un ritratto, uno dei possibili, dell’identità autoriale femminile nella scrittura di romanzo. L’indagine sullo stile, sui personaggi, sulle dinamiche intertestuali, e in particolare sulle strategie di autofinzione che le diverse scrittrici adottano evidenzia come tratto distintivo uno scarto fra il diritto all’espressione acquisito dalle donne e la permanenza di un segno di denuncia di volta in volta più o meno dissimulato. In questa prospettiva, i romanzi sui quali ci si sofferma testimoniano l’adozione di soluzioni che risultano attuali per i contenuti etici, civili, culturali e innovative rispetto ai codici espressivi della tradizione.

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