La Valduga non è mai stata Penelope

Patrizia Valduga

I mille volti e filtri velenosi di Patrizia Valduga

di Monica Acito

 

Può la poesia essere fonte di piacere fisico?

Possono i versi far sussultare la carne, come farebbe il tocco di una mano?

Patrizia Valduga, nel suo corpus poetico, ci ha dimostrato che la poesia può essere madre, matrigna e amante. E, allo stesso tempo, unguento curativo e filtro velenoso.

Valduga si è servita dei suoi versi per attutire il tonfo della vita: le sue parole hanno assorbito qualsiasi forma di dolore, e hanno convertito tutto in delizia e guarigione.

Nata nel 1953 a Castelfranco Veneto, Patrizia Valduga è una personalità carismatica e poliedrica: si serve della poesia con la stessa voce incantatrice che usarono le sirene che tentarono di sedurre Odisseo, e la sua poesia le è fedele come un’ancella.

Spavalda, dolce, mansueta, animalesca e docile: Valduga riesce a indossare tutti i volti possibili, incarnati e cuciti in mille maschere d’inchiostro; con le parole, riesce a fare e disfare la tela, come una novella Penelope.

Ma, a differenza di Penelope, lei non aspetta niente e nessuno: Valduga si prende tutto, e lo fa con la potenza creatrice della sua parola.

Compagna del poeta e critico letterario milanese Giovanni Raboni (a cui rimase accanto dal 1981 al 2004, anno della morte di lui), Valduga ha studiato per tre anni Medicina per poi approdare alla facoltà di Lettere di Venezia; ha fondato e diretto la rivista “Poesia” e attualmente collabora alle pagine culturali di “Repubblica”.

La sua parola è rapsodica e affabulatrice, e riesce a restituire alle papille gustative tutti i sapori della poesia, dai primordi alla contemporaneità.

Il suo libro d’esordio, “Medicamenta” (1982), è un caleidoscopio di forme poetiche disparate; madrigali, ottave, terzine, sonetti, quartine, in un tentativo di succhiare tutto il midollo della tradizione poetica e farlo proprio, in maniera del tutto originale e con un linguaggio ibrido e nuovo.

Il linguaggio di Valduga in “Medicamenta” è pregiato come un arazzo finemente ricamato, ma sa anche essere colloquiale, volgare e quotidiano, in una ricerca spasmodica di “filtri e veleni d’amore”, come il titolo della raccolta suggerisce.

Io per la voglia scoppio e mi sconsolo.
Oh se potessi scagliarmi al suo collo,
e non destarlo… o strascinarmi al suolo
e con lascivo assalto, anche il midollo
succhiargli… o con audaci mani a volo
provarne gli inguini… Avida controllo
che fa di lui la sua notte testarda,
la mia che come astuta, tarda e tarda.
(
Patrizia Valduga, “Medicamenta” (1982, Guanda)

Ingorda, vorace e spudorata; la voce di Valduga, in quanto auctor, vuole tutto: i “medicamenta” di cui parla sono intrugli, pozioni in cui la poesia si mescola con la vita, l’oscenità e la bellezza. Un po’ come i versi di Ovidio, che nei suoi “Medicamina faciei femineae”, delineava un “magister amoris” per le donne romane, fatto di consigli di bellezza. Ciprie, unguenti e filtri di bellezza: così come il poeta di Sulmona insegnava alle fanciulle l’arte del piacere, in contrapposizione ai rigidi dettami del Mos Maiorum, allo stesso modo Valduga ammaestra le sue parole in maniera spericolata e libera.

I suoi “Medicamenta” sono esercizi e gemme di bellezza, un modo per prendersi cura di se stessi attraverso la poesia, che può nascondere fiori dalla bellezza soave, ma anche petali carnosi, che possono sprigionare profumi mortali. E in questo modo, la cura e la medicazione possono trasformarsi nell’esatto opposto.

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Emilio Rentocchini, “44 ottave”

Emilio Rentocchini, credits ph. Giorgio Gilberti

Tre e-mail
a Maria Cristina Cabani
sull’ottava

(Estate 2014)

– Caro Emilio, in attesa di spedirti il libretto /Amori/, che è finalmente uscito, mi rivolgo a te in cerca di suggerimenti. A settembre andrò a Città del Capo dove sono stata invitata ad un Convegno sulla poesia del ’900. Avrei intenzione di parlare della fortuna dell’ottava e dei poeti che la usano, prendendo le mosse dal /Requiem /di Patrizia Valduga.
In particolare vorrei esaminare come i poeti sfruttano la doppia natura, lirica e narrativa, del metro (tu mi sembri uno dei pochi che ne apprezza la liricità). Ti chiedo se puoi indicarmi interventi o saggi in proposito (anche e soprattutto tuoi) e anche se puoi dirmi in poche parole che cosa ti affascina dell’ottava, visto che è fra le tue forme predilette.
Un caro saluto.

Cristina

Temo, cara Cristina, che ti toccherà concentrarti sulla sfortuna dell’ottava nel Novecento, perché, a memoria, non mi viene in mente nessun poeta che l’abbia usata: a parte Sanguineti. Mi sembra anche di ricordare che nel discorso di accettazione del Nobel, Montale abbia esplicitamente affermato che nel suo -e nostro- secolo non si poteva più scrivere in ottave.
Comunque, per quel che mi riguarda, si è trattato di un colpo di fulmine, dopo aver riletto tutto d’un fiato il Furioso, nei pigri pomeriggi della primavera del 1988.
Ero partito con l’idea sonnolenta di leggiucchiare qua e là, in un noiosissimo periodo di insegnamento, dal quale tornavo avvilito. Be’, la magia del cristallino e liquido
endecasillabo ariostesco mi obbligò a leggerlo avidamente, senza scartare un verso, senza perderne una sillaba, o meglio, una nota…
E mentre leggevo mi chiedevo se non si potesse arditamente provare a riprendere in dialetto quella struttura di otto versi, coi quali tutto era stato detto, e così bene, un
tempo; in cui ogni cosa aveva trovato il suo posto, alonata di stupore. Il Novecento non crede ai poemi, non conosce cavalieri, mi dicevo. Ovvio che occorresse ripensare l’uso
dell’ottava. Il poeta è isolato, il dialetto è accerchiato, pensavo. Isoliamo l’ottava e facciamone un rifugio ed un mondo, pensai in conclusione. Il limite era proprio questo: tentare di tenere all’interno di otto endecasillabi una goccia di vita che continuasse
a muoversi, senza scivolare via o prosciugarsi. Ma praticando l’ottava mi accorgevo via via che l’angustia del metro offriva spazi insperati. E vivevo come in una continua scoperta speleologica, su un terreno carsico dove sprofondare equivaleva spesso a riemergere in un altrove luminoso. Al punto che non mi sono mai sentito così libero come prigioniero dell’ottava. Uno dei momenti più commoventi e pieni della mia vita. Tanto più se pensavo che stavo usando la lingua degli avi, a cui per certi versi davo voce, una lingua atemporale, mitica. E in quanto mitica, in grado di reggere l’anacronismo della misura chiusa.
Altro grande vantaggio dell’ottava, poi, la brevità memorizzabile che mi permetteva di lavorare a mente, in qualunque momento: di levigare e ritoccare e portare a compimento senza bisogno d’altro che di una buona concentrazione… non mi è mai piaciuto scrivere. Con la sensazione di poter tenere dentro quello scrigno da niente musica e pensiero, poesia e poetica. Continua a leggere

Gli scritti militanti di Giovanni Raboni

Meglio star zitti? raccoglie centosettanta stroncature firmate da Giovanni Raboni in quarant’anni di attività critica: interventi talvolta garbati, più spesso sarcastici e addirittura spietati, tesi a mettere in discussione il valore e il significato di prodotti artistici (romanzi, poesie, film, spettacoli teatrali) e di fenomeni di costume. Ne fanno le spese nomi blasonati: Woody Allen, Italo Calvino, Umberto Eco, Federico Fellini, Dario Fo, Giorgio Gaber, Ernest Hemingway, Milan Kundera, Pier Paolo Pasolini e tanti altri.

Inflessibile nella difesa della qualità, Raboni condanna la deriva consumista della produzione culturale italiana del dopoguerra, rivendicando la responsabilità primaria del critico militante: essere per il pubblico una guida attendibile e onesta, chiamata a distinguere il “vero” dal “falso”. Compito che va sempre più assumendo i toni di una solitaria e disperata sfida etica.

UN ESTRATTO DAL LIBRO

Il poeta fa spettacolo ma non si fa leggere

Letture pubbliche di poesia, festival di poesia: e perché no? Anche se appaiono ormai lontanissimi i tempi, fra la metà degli anni Settanta e la metà degli anni Ottanta, in cui ci siamo entusiasmati per questa nuova forma di comunicazione e, sembrava allora, addirittura di aggregazione, non per questo sembra il caso di metterne in dubbio la legittimità e il senso. Piuttosto, può valere la pena di chiedersi che cosa a suo tempo si prevedesse o sperasse e che cosa, poi, si è davvero verificato, anche per non cadere ulteriormente nelle stesse illusioni. Continua a leggere

Carlo Porta, la grande passione di Patrizia Valduga. La migliore traduzione dei suoi versi scritti in dialetto milanese

El sarà vera fors quell ch’el dis lu,
che Milan l’è on paes che mett ingossa,
che l’aria l’è malsana, umeda, grossa,
e che nun Milanes semm turlurù.

Impunemanch però el mè sur Monsù
hin tredes ann che osservi d’ona cossa,
che quand lor sciori pienten chì in ista fossa
quij benedetti verz no i spinten pù.

Per ressolv alla mej sta question,
Monsù ch’el scusa, ma no poss de men
che pregall a addattass a on paragon.

On asen mantegnuu semper de stobbia,
s’el riva a mangià biava e fava e fen
el tira giò scalzad fina in la grobbia.

Carlo Porta Continua a leggere