Barbara Herzog, da “Nada más”

Barbara Herzog

Vuoi suggere
da ogni risposta
una goccia di anima
per assaporarla
abbracciarla
solo per questo
cavi sapere
da un sasso
e sì, per la tua voce
che bacia come
il vento gli steli d’erba

***

Quando intuisci
a poche sillabe
assurgi ciascuna
perché non puoi toccare
per colmare l’urgenza
ogni gemito accarezzato
nell’aria
non fa che acuire
la carnalità
del bisogno

***

Inutile arrovellamento
le risposte non sgorgano
da quel ruscello limpido
frastornante fino a
poco fa

ruvido palpare
per comprendere
dov’è finita la piena
sgorgano

***

Sublimare
è la parola d’ordine
dei decreti che
giocano al salto della corda

fortunata
colgo l’ispirazione
nell’inflessione delle parole
e costruisco

castelli sulle nuvole
se no
la mia pelle
sarebbe già avvizzita

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Le poesie d’amore di Beatrice Zerbini

Domani è domani,
lo saprebbe tua madre,
lo sa ancora tuo padre.

Non si può nominare,
sfoltisce i calendari
di giorni in anni, tarda
a non essere più.

Qui si possono accendere
le candeline,

però tu non le spegni;
dappertutto è un incendio
tu sei tutta una cenere.

È un verso settenario
il ventinove maggio.

***

A volte sei solo una testa bionda,
un trench,
un cappotto di cammello,
spazzolato come non avessi
accarezzato i gatti;
a volte attraversi
e sei un baleno,
un’incrinatura dello spazio;
e spicchi nel grigio,
con i capelli,
fra i mortali.
E mentre trasalisco
e mi sporgo,
come un inciampo,
verso di te,
per chiamarti – e
devo fare presto,
prima tu sparisca,
dietro gli angoli,
come un vapore –,
mi ricordo
quel giorno
che ho bevuto Veuve Clicquot,
e l’ho sparso poi
sulla tua terra
ancora mossa e tenera.
Allora abbasso gli occhi
e la mano. Continua a leggere

Nuno Júdice, verità della poesia e poesia della verità

Nuno Júdice, per gentile concessione

Sulla poesia di Nuno Júdice
di Marco Bruno

C’è, nella poesia di Nuno Júdice, qualcosa che non c’è: c’è il non esserci di una caratteristica, una dote, una maledizione: l’ironia. L’ironia è quasi totalmente assente dalla poesia di questo grandissimo poeta portoghese, e anche quando c’è, è dolce, non è mai maligna, come se il poeta trascendesse, in questi momenti di altissimo lirismo e pensiero, la scherzosità – racchiudendola in sé, in modo giocoso e velato – e la meschinità comune del quotidiano. Júdice è poeta vero e sincero, che non finge una moralità, ma, per dirla montalianamente, fa del proprio meglio. E il risultato è sublime.

Ma ciò è dire ancora poco; con rispetto, ammirazione, venerazione ci accostiamo a questi versi, la cui complessità è spesso vertiginosa. Abbiamo scelto, traducendole, cinque poesie da uno dei libri più belli di Júdice, Guia de conceitos básicos (2010), ancora inedito in Italia. Il lirismo, leopardianamente, non vive alcun conflitto col pensiero, anzi scaturisce da esso.

È la ricerca della verità della poesia, che va a braccetto con la poesia della verità. L’universalità. Il paradosso, che sembra negare la possibilità della convivenza, in realtà, e proprio per contraddizione, la afferma. Essendo un paradosso, è ciò che non è, e in questo non c’è alcuna contraddizione, perché la poesia è un linguaggio trasfigurato, dove, e anche o soprattutto in Júdice fra gli altri, la parola deve, con semplicità (altro paradosso, apparentemente), dire, pronunciare, incarnare la bellezza della vita, bellezza gioiosa e dolorosa, sempre e ancora aquém (al di qua) della joie proustiana, bellezza pessoana, dove ciò che è bello e positivo lo è sempre in controluce, nella nostalgia, perché “non si percepisce mai la vita / così forte come nella sua perdita” (Mario Luzi, Quanta vita, vv. 24-25).

La bellezza della scrittura, allora, riscatto della pochezza umana quotidiana, non è bellezza formale, wildiana, mortale, ma è estetica vera, non proustianamente gioiosa, bensì malinconica, ma pura e, direi, persino disinteressata, arte dell’immortalamento delle briciole di vita, quelle briciole grandiose che dànno senso a un’esistenza intera. La vita, quella poesia che tutti possiamo vivere quotidianamente, si ferma e si esprime nelle poesie di Júdice, poesie voce di un rammarico per qualcosa che estasia, folgora e non si ferma.

Júdice trae linfa dalla propria capacità di pensare: ma è un pensiero non arido, non puramente intellettuale o logico, bensì vivente degli attimi della poesia. Lo sviluppo è sviluppo solo perché c’è la poesia, quell’essenza accaparrata da Croce (che rifà Leopardi negandolo), negata dalla scuola materialista, ma inalienabile. La poesia è la capacità di Júdice, o meglio del soggetto, del personaggio di Júdice, di pensare, di vivere, di non vivere. La condizione è la stessa del Montale delle Conclusioni provvisorie; ma il paesaggio è già quello di Satura. Pessoa, sì, ma in una dimensione più costruttiva, anzi, forse sarebbe il caso di dire, strutturale o strutturalista. E Blanchot, la riflessione geniale, sublime, sull’ontologia della poesia e della letteratura, la lezione benjaminiana, la libertà spregiudicata dell’approccio alla parola e alla storia, la poesia come saggio, il saggio come poesia. “Lo sguardo di Orfeo”: Blanchot, appunto, la densità vertiginosa del pensiero, che, come in Júdice, dolcissimamente non lascia scampo. Attenzione anche al gioco di Júdice col linguaggio, con la ripetizione, con l’architettura razionale e combinatoria, ma mai arida, sempre lirica. Ed è nell’ultima di queste liriche selezionate che si vede, si porge il gioco catartico: Júdice affronta il proprio dèmone o demonio.

“Episodio di caffè”. La morte è la letteratura, ma solo la letteratura salva dalla morte. Non c’è la gioia, ma c’è comunque Proust, e l’apparentemente negativo Pessoa.

Il poeta è inseguito da Euridice come dalla morte stessa, e solo se inverte il movimento della macchina da presa, fuggendo in avanti anziché all’indietro, e scegliendo lo stratagemma, l’astuzia del congelamento del tempo – la parola, qui sotto forma di “mi fermai” – per farsi precedere dalla negazione di sé (il desiderio di rivedere la donna, di rivedere se stesso, di morire, di diventare immortale, perché dà un nome), solo guardandola in faccia, e stabilendo se la morte è una metafora o meno, se lui è un poeta o meno, scegliendo fra la vita e la poesia, ma soltanto nell’affrontare la morte salvando entrambe; soltanto ingannando la propria paura della morte – interrogando il fantasma proprio tacendo, dandogli la parola, per poi sopravvivere in una domanda pilatiana che salva tutta la verità (e la vita) proprio perché non la nomina – può rovesciare la dannazione di guardare Euridice – la morte di Euridice – sempre dalla contraddizione di chi sta avanti senza voler camminare, procedere, vivere, scrivere. Solo uccidendo Euridice – salvandola per sempre, lasciandosi precedere da lei senza sapere chi ella sia – il poeta che forse non è più moderno ma contemporaneo (e cosa significa?) cioè classico, solo così questo poeta può, nell’enigma, salvare la verità, quella della poesia, cioè della vita.

Cracovia, 19 ottobre 2021

da Guia de conceitos básicos [Guida di concetti basici], Publicações Dom Quixote, Lisboa 2010

UMA REFLEXÃO SOBRE A BELEZA ETERNA, INTERROMPIDA PELA VISÃO DO EFÉMERO

A harmonia que, para os clássicos, exprimia a relação
das partes com o todo, atravessou os milénios sem alterar
o equilíbrio do homem no centro da sua esfera. Esse
homem, com a sua representação simétrica, define-se
a partir de um universo que tem um limite
na compreensão divina da matéria
e do espírito. E poderia continuar assim, se
não ouvisse um copo a partir-se no fundo
da casa – alguém que se distraiu, e que rompeu,
de súbito, o meu raciocínio. Ao mesmo tempo,
porém, descobri que nada do que eu pensava
era original; e só ao apanhar do chão os vidros
partidos, um brilho breve no seu contacto com
a luz me fez pensar que, afinal, a harmonia
também nasce da destruição, e o centro da esfera
desloca-se para o fragmento que seguro com
os dedos, antes de o deitar para o lixo.

UNA RIFLESSIONE SUL BELLO ETERNO,INTERROTTA DALLA VISIONE DELL’EFFIMERO

L’armonia che, per i classici, esprimeva il rapporto
delle parti con il tutto, ha attraversato i millenni senza alterare
l’equilibrio dell’uomo nel centro della sua sfera. Codesto
uomo, con la sua rappresentazione simmetrica, si definisce
a partire da un universo che ha un limite
nella comprensione divina della materia
e dello spirito. E potrei continuare così, se
non udissi rompersi un bicchiere in fondo
alla casa – qualcuno che si è distratto, e che ha rotto,
di colpo, il mio ragionamento. Al tempo stesso,
però, ho scoperto che nulla di ciò che io pensavo
era originale; e soltanto prendendo dal pavimento i vetri
rotti, un luccichio breve nel loro contatto con
la luce mi ha fatto pensare che, in fin dei conti, anche
l’armonia nasce dalla distruzione, e il centro della sfera
si sposta nel frammento che mantengo con
le dita, prima di gettarlo nella spazzatura. Continua a leggere

Zanzotto, il poeta del terzo millennio

Andrea Zanzotto

ANDREA ZANZOTTO: LE ESTREME TRACCE DEL SUBLIME

DI CHIARA FATTORINI

L’imminenza del centenario della nascita di Andrea Zanzotto è un tempo prezioso, che ci permette di vedere in una luce nuova e più viva l’importanza di questo poeta nel panorama della letteratura europea del secondo Novecento e di inizio millennio. La fecondità di questo tempo è testimoniata dal lavoro di alcuni studiosi, che hanno sentito questa ricorrenza come l’occasione propizia per una ricerca unitaria sull’ultima produzione del poeta – quella iniziata con Meteo (1996), proseguita con Sovrimpressioni (2001) e culminata nell’“exit opus” Conglomerati (2009). Alla base di questo progetto c’è innanzitutto l’idea che di questi ultimi libri, per ragioni cronologiche, molto sia ancora da indagare, analizzare e comprendere. Come scrive nell’Introduzione il curatore del volume, Alberto Russo Previtali, in quest’ultima fase Zanzotto non solo ha confermato e approfondito “le conquiste conoscitive più mature della sua poesia”, ma è andato anche oltre, “spingendo il proprio dire dentro le tensioni e le dinamiche profonde degli albori del millennio, in un superamento interno della propria posizione di soggetto e di poeta”.

L’anniversario è quindi l’occasione “per tornare ai testi con un nuovo sguardo, con nuove domande e con nuove esigenze”, per dialogare con Zanzotto, per interrogarlo sui problemi di oggi a dieci anni dalla sua scomparsa, per cercare di capire i modi della sua presenza nella contemporaneità. Così è nata la monografia collettiva intitolata Le estreme tracce del sublime. Studi sull’ultimo Zanzotto, in cui otto studiosi riconosciuti della critica zanzottiana si confrontano con “il carattere estremo, in tutti i sensi del termine’ della fase finale dell’itinerario del poeta di Pieve di Soligo.

Le voci che si susseguono in questa monografia si addentrano negli aspetti più importanti della seconda “pseudo-trilogia” zanzottiana (che viene dopo quella rappresentata da Il Galateo in bosco, Fosfeni e Idioma), per capire ciò che questa poesia estrema può dirci riguardo alle grandi problematiche del XXI secolo, dal cambiamento climatico alla distruzione del paesaggio. La visione privilegiata di Zanzotto, testimone dei grandi cambiamenti avvenuti tra i due secoli, gli ha permesso, infatti, di avere una prospettiva lungimirante sulla condizione dell’uomo contemporaneo, e di assistere – come dice Russo Previtali – “alla perdita sempre più radicale, per il soggetto, della possibilità di orientare il proprio essere nel mondo attraverso la fascinazione erotica e il sentimento del sublime”.

La monografia è suddivisa idealmente in due parti: nella prima troviamo dei saggi panoramici, che presentano le grandi tematiche della pseudo-trilogia in maniera trasversale, mentre nella seconda si passa alla lettura e all’analisi delle singole opere. I saggi di questa seconda parte prendono spesso le mosse dall’approfondimento di concetti-figure e di linee guida presentati nei saggi della prima. Continua a leggere

Luca Pizzolitto, poesie

Luca Pizzolitto

Nell’avanzo di parole
su cieli colmi di rabbia,
qui dove piove piano
e rinfresca la sera

cedi al vuoto, al niente,
il dono austero delle labbra.

Nell’ostinato silenzio di Dio,
nel tuo sguardo breve
di madre trova riposo
ogni mia lontananza.

***

L’azzurro del cielo
strappa e cade
nel dolore silenzioso
della sera.

Chiamare casa solo
la luce ferma del mattino,
l’aria di settembre
che si posa sul viso,
questo mio sconfinato esilio.

***

Luce lasciata e tersa
dei primi giorni di dicembre,
misericordia del vento sul
tuo viso gentile, tagliato dal freddo.

È il riverbero ostinato del vuoto,
è un peso greve sul cuore;
neve che accende e poi placa
l’inciampo della sera.

Andare in pezzi, fiorire un mattino.

***

È il cadere atroce della bellezza
tra la fame e il rantolo della ragione
non è muta la polvere

questo silenzio tra i nostri corpi,
l’inganno fragile delle mani.

****

Giorni si perdono nello spazio
sacro del ricordo, i nostri
volti illesi, trattenuti al pianto.

Guardo la neve cadere:
resta la cenere sul lavandino,
l’impronta confusa delle tue mani.

Splende di un disperato
splendore la vita. Continua a leggere