Alessandro Moscè, tre inediti

Alessandro Moscè

LE OMBRE PARLANO

(inediti)

A Franco Loi, il poeta dei giorni minimi

Mio caro Franco, divino testimone del bene
chiuso nella tua camicia sacerdotale
e nelle parole di angelo scese dai cornicioni,
ti interpello con il termometro sotto braccio
perché tu sai che i pazienti stringono il pugno,
che nel grigio intravedono l’oro,
che leggono rotocalchi rosa e poesie strazianti
come fiutassero l’aria gelata delle sale operatorie
e le bollicine degli antibiotici endovena.
Ma la salute è ancora un dono d’amore?
Quelle nevicate a Milano, negli anni Cinquanta
forse ti mancano se a te l’amore
fa riaffiorare la giovinezza nelle braccia
quando il malessere sale dal secondo piano
e scende nel vociare degli ascensori.
Sappiamo solo guardarci
dal fondo degli occhiali o dei bicchieri,
sorseggiare un thè freddo
in un viaggio immobile nell’inganno di luglio
dove non bastano più i versi
a farci coraggio dopo le parole mediche
se l’anziana urla d’ansia, assediata
da una porta che si chiude a scatto
e da un codice rosso incollato alla lettiga Continua a leggere

Giovanni Ibello, (senza titolo)

Giovanni Ibello /credits ph. Dino Ignani

Cercava la risacca nelle pinete
fiutava l’ombra di un ago sul fondale:
la terra rovesciata, il sudario fertile.
Conta fino a zero, le dissi
salta nell’arco cinerino.
È tutto calmo
qui è davvero tutto calmo,
il sole è una biglia di benzodiazepina.
C’è ancora un intreccio di gelsomini carbonizzati sulla pietra.
L’estate
una valanga d’aceto sopra i fiori.
Ma in questo valzer di occhi crociati
non dire una parola, non parlare.
Troveremo un altro modo per fare alta la vita.
La mia estasi rimane
lettera morta sul greto.
Brindo al disamore
al cuore profanato nell’acquaio
agli insetti fulminati nell’insegna.
Ci lega la parola feroce,
una giostra di penombre.
L’incanto di una teleferica,
l’esatto perimetro di un grido.
Tu che muori
in quell’assillo di aranceti
che ritorna.
Era l’affanno antico,
l’anemone del giorno
divelto sopra i silos.

 

Giovanni Ibello, (senza titolo)

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Tommaso Di Dio, (senza titolo)

(Tommaso Di Dio/ credits ph. Dino Ignani)

Provo a parlare con te; provo
ad entrare.

Attraverso la luce del sole
a settembre, di sera, quando sta
fra il verde degli alberi e il vento.
Attraverso lo schermo del cellulare
attraverso la pressione
del piede sul fango oppure con l’alzare delle braccia
con la nuvola
che evapora dalla schiena dei cavalli.

Tutto questo sei tu, in questo mondo testo.
E mi parli attraverso
le lettere infinite dei poeti e la bocca di uno
spalancato paesaggio. Infine, sopra dovunque io scriva
tu di fretta scrivi questa scritta: dove hai amato
troverai un ostacolo; una porta, poi
un gradino. Scenderai
passo dopo passo. Lì
noi parleremo.

Tommaso Di Dio, (senza titolo)


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Francesca Serragnoli, (senza titolo)

Francesca Serragnoli / credits ph. Lucrezia Figatti

La profondità del lago mi fissa
la superficie vibra battuta da un ventaglio
come il salice vorrebbe sfiorare l’acqua
la mia ombra s’inclina
l’infinito è quel centimetro enorme
sgualcito dove la vita
abbassa la testa per passare

nella stanza l’arazzo lava i miei colori
come un panno che mani bianche
alzano e abbassano da un cesto
scendere ricorda i movimenti di una culla
risalire ha la bruciante paura dell’acqua
di evaporare, diventare niente

il mare trattiene le gambe fra le braccia
il sole scuce la rosa del volto
come l’orlo increspato di un vestito
l’onda è vapore, salsedine
goccia che riconosce una spalla non sua
l’oro blu della quasi notte, nient’altro
dà al fiore l’ultimo tremito.

Francesca Serragnoli, (senza titolo)


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Gianluca Furnari, (senza titolo)

GIANLUCA FURNARI

Allegro, Andante… entrammo nei miracoli:
la pietra scesa dai cavalcavia
tramontò sotto un verso –
dove credeva il male di arrivare e l’epoca
presente, le maree? ma tu eri nato
per questo, per discernere le foglie
vecchie le foglie verdi
così commiste.

E si era al nono mese
già dal concepimento del sereno,
da noi sotto il diluvio –

qualcuno disse: «è bene che le stringhe
scompaiano, che perdano esistenza –
bene che tu apra la pupilla, il corpo
goffo che viaggi, miri l’universo.»

E fu così: nascesti.

Il resto è tramontato sotto un verso.

Gianluca Furnari, inedito

 

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