Il pathos di una retorica antica

Mario Benedetti, foto di proprietà dell’autore

La decenza del pathos, saluto a Mario Benedetti

di Jean-Charles Vegliante

Se penso alla poesia di Mario Benedetti, indipendentemente dal legame di stima e amicizia che ci univa, la parola che mi viene spontanea è di un ritrovato pathos: il pathos della retorica antica, privo di facili sentimentalismi, alieno da certe forme di drammatizzazione alle quali purtroppo ci stanno abituando le espressioni (anche scritte, anche “poetiche”) dei social media, e altre frenesie del blogging. Dopo decenni di scritture incentrate sul logos, sia di recupero sia di contestazione, sia da ultimo di seduzione e riflessività e maniera, con una notevole risonanza europea, di tutto rispetto, scoprendo Umana gloria ero rimasto colpito – o, come diceva Emily Dickinson, “aggrappato pei capelli” – da versi quali

Solo qui sono, nel tempo mostrato, per disperdermi.  

                                                             (Umana gloria, 2004 – prima poesia)  

ove il pathos, attanagliato fra l’esibita solitudine e l’ansia di dispersione, in senso (credo) anche psichico, si sostiene innanzitutto dal ritmo isocrono (tre volte due ictus) internamente variato dalla modulazione scalare delle posizioni metriche (5, 6, 4), riaffermato dalla triplice allitterazione (so, t-, per). Tutt’altro che sentimentale; o, se si volesse volgarmente dire, “di pancia”; o, all’americana, “romantic. C’è, nel semplicissimo dettato di questa frase-verso, una perizia invidiabile, già collaudata da anni di “gavetta” in Scarto minimo (con Dal Bianco e Marchiori), attraverso il superamento delle ricerche di neo-avanguardia e delle reazioni espressionistiche o cosiddette “innamorate” successive. Siamo messi davanti a una pura (o “tersa”) dizione che potremmo forse candidare – come un tempo si fece con quella del primo Saba – all’idea di classico. Eppure, dovevo leggere ben altro – comprese alcune prose, critiche e non, del poeta e collega Benedetti –, riflettere sulla mia stessa formazione di stampo strutturalistico e partecipare a certi esercizi di traduzione collaborativa, prima di impegnarmi, secondo i miei modesti mezzi, nella difesa e diffusione (ancora più modesta, quest’ultima!) della poesia di Benedetti in Francia. – Così per una scelta (M. Benedetti, De noirs poèmes) su Le nouveau recueil di Maulpoix a fine 2009 [http://www.lenouveaurecueil.fr/Benedetti.pdf], circa due anni dopo i primi cordiali scambi elettronici con Mario. – A scanso di equivoci, aggiungo tra parentesi che il grande Pascoli medesimo è colà pressoché sconosciuto: ci son voluti sei-sette anni per trovare da pubblicare un librino (saggio e scelta antologica), L’impensé la poésie, debbo dire di scarso successo. Questo passa il convento. Insomma, un compito non facile, anche se alcuni testi hanno trovato da subito un pubblico “comune”, il più arduo da toccare in letteratura, e sono stati messi in musica anche per giovani ascoltatori (Giovanni Peli, Accorgetevi). Continua a leggere

Il silenzio tenace di Mario Benedetti

Mario Benedetti, poeta italiano. Foto di proprietà dell’autore

di Lorenzo Babini

La mancanza di Mario Benedetti è per me innanzitutto legata ad alcuni ricordi personali, di quando cioè, tra gli anni 2011 e 2013, lo incontrai diverse volte, sempre in compagnia di Tommaso Di Dio. Rimasi sin da subito colpito da quella figura silenziosa, appartata e indifesa, le cui parole sembravano uscire a stento. Non ho avuto modo, tempo o fortuna di instaurare una consuetudine con lui ma posso dire che la mia percezione di allora fu che quel silenzio umile, grave e profondo avesse qualcosa da dire alla mia esperienza.

Ricordo che ne parlai una volta con Massimiliano Mandorlo, al termine di un reading che avevamo organizzato in un bar vicino a via Venini a Milano, in quel quartiere che oggi viene chiamato NoLo e di cui fino a pochi anni fa se ne ignorava l’appeal. Era venuto ad assistere a quella lettura di giovanissimi poeti anche Mario, che abitava in quella zona. La sua figura, da cui traspariva l’esposizione dolorosa e radicale dell’uomo di fronte al destino, aveva quella sera affascinato alcuni di noi, nonostante nessuno di noi lo avesse sentito pronunciare una sola parola. Questo accadeva per me prima di conoscere la sua poesia.

Più tardi, leggendo la sua opera, riconobbi la stessa presenza che era dell’uomo: la presenza cioè di un silenzio fragile e tenace, nato dall’umile aderenza alle cose, seriamente impegnato con il proprio vissuto e improvvisamente capace di esprimere, in un due versi slogati, dalla sintassi anomala, verità disarmanti sull’esistenza. Continua a leggere

Epistéllō, invio

Mario Benedetti, nella foto di Dino Ignani

Il poeta Alessandro Ceni scrive di Mario Benedetti, poeta italiano, usando un’antica tecnica: l’epistola (epĭstŭla, in greco epistolḗ, derivante di epistéllō “mando, invio”).

Ceni risponde quindi, alla sua maniera, alla mia richiesta di inviare al blog “qualcosa di scritto” per ricordare Mario Benedetti. Ceni sceglie la forma epistolare e si rivolge a me, ma parla di Benedetti. Un intervento davvero notevole. Ceni, pur essendo agli antipodi della poesia di Benedetti, non indugia a riconoscere nel poeta friulano, prematuramente scomparso, la capacità e la dote della vera poesia.

Luigia Sorrentino

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Cara Luigia,

accolgo volentieri il tuo invito a scrivere, a buttar giù qualcosa, su o intorno a Mario Benedetti.

Di persona non l’ho conosciuto né mai mi pare ci siamo incrociati in occasione di qualche lettura. L’unico contatto con lui fu molti anni fa ai tempi della rivista “Scarto minimo”. Se non ricordo male, inviai delle poesie per l’eventuale pubblicazione e la sua risposta (non rammento se epistolare o telefonica) fu che, parole sue, essendo io già noto (già allora, a suo parere) potevo fare a meno di essere pubblicato lì (evidentemente si privilegiavano poeti meno “noti” o esordienti). Nessuna replica da parte mia e nessuna ulteriore notizia da parte sua.

Dal punto di vista poetico, sicuramente ci situiamo non proprio agli antipodi ma inequivocabilmente a parecchie miglia di distanza l’uno dall’altro. Ciò non toglie, però, che non abbia apprezzato la sua poesia, la sua asciutta e acuta ricerca. Voglio dire, cioè, che pur su posizioni diverse, sotto il profilo dell’indagine e del lavoro sulla lingua una certa consonanza può sussistere. Non solo. Poiché ho sempre tenuto presente di un autore (poeta, artista o altro) il suo “come”, vale a dire il modo in cui ottiene l’esito finale del proprio lavoro (lo stile è l’opera), senza dare alcun peso al “cosa” e al “perché”, i quali sono contenuti ed espressi dal “come”, Benedetti (almeno quello che mi è capitato di leggere) può interessarmi. Questo per dire che anche di poeti lontani o molto lontani o addirittura incompatibili è necessario riconoscere la qualità (e con ciò superare d’un balzo ogni faziosità rappresentata da linee, scuole, gruppi, conventicole eccetera). Continua a leggere

Benedetti, un io poetico che non uccide

Mario Benedetti, poeta italiano, credits ph Dino Ignani

TRA IRREALTÀ E LACRIME
Stefano Bottero

«Siccome hai esercitato il tuo spirito a concepire tutta
l’esistenza in categorie estetiche, è naturale che
il dolore non sia sfuggito alla tua attenzione»
Søren Kirkegaard, Aut-Aut

Nella poesia di Mario Benedetti l’io poetico rapisce, proietta la propria cognizione singolare di un dolore che accompagna senza uccidere. Non la semplice consapevolezza del dolore, ma del ruolo del dolore nella vita che scorre, in cui ogni cosa è già stata – tragicamente – data. Se vogliamo, la consapevolezza heideggerriana dell’angoscia che si rende radice dell’esperienza sensibile, che «non vede un “qui” o un “là”, da cui si avvicina ciò che minaccia».

Le vite nei versi di Benedetti si muovono senza direzione, prive di punti cardinali, perché ogni cosa, ogni dolore, è diventato un punto fermo in una costellazione generale, troppo grande per essere compresa con la logica. «Tutto è una distanza sola. Le fermate sono da rimettere a posto». Un’indicibilità che non scoraggia, e si rende invece radice formale dei suoi versi. «Penso a come dire questa fragilità che è guardarti, / stare insieme a cose come bottoni o spille». «Morire e non c’è nulla vivere e non c’è nulla, mi toglie le parole».

Anche la morte è nella sua opera un luogo in cui le cose scorrono. Non si palesa in essa la consolatoria cessazione del nostro rapporto con ciò che non siamo. È proprio in questo, io credo, che la poesia di Benedetti sia ancora unica: nel riuscire a cogliere ciò che esiste anche nella fine, anche nel totale annichilimento della conclusione.
Scrisse così, nel Capitolo secondo di Pitture nere su carta (2008).

Non l’ascolto, sta la veglia, senza.
Carriole di muri, non raccontate.

Nessuno, nel finire degli occhi.
Neanche i visi. Hai abitato,

abbastanza, il corpo.

Abitato. Qua. Un sole, una pioggia.
Le scarpe, le scarpe ricordate.

I corpi, i due corpi, i tre.
Rimasti, nella loro casa.

Nella loro casa rimasti.

La cognizione dell’essere qui e adesso, ed essere allo stesso tempo relegati nell’inconsapevole. Non lo sguardo idiota di un Principe Myškin, non il cedimento allo stereotipo tardo ottocentesco de ‘la coscienza nell’allontanamento dal reale’. Tutto l’opposto: il riconoscersi razionalmente nello iato che separa ciò che siamo da ciò che è stato. Da ciò che è rimasto, ed è rimasto – sempre – abbastanza. Così non è l’esistenza in senso lato a filtrare nella composizione di Benedetti, ma un’esistenza consapevole del proprio inevitabile essere trascorsa. Anche le prime cose che ci hanno regalato consapevolezza, lo leggiamo in Tersa morte, non differiscono dal resto: «Dentro i discorsi si perde / la prima cosa che il bambino ha guardato».

Il dolore non è mai anticamera della fine, ma cartina tornasole di una verità esistenziale: ciò che ci definisce è l’incongruenza tra chi siamo e tutto il resto. E non il resto della bellezza o del vero, per Weil mere «cose impersonali e anonime», ma il resto di ciò che compone il presente fisico. Che compone l’adesso.

Il corpo, colato in vetroresina,
si muove lentissimamente.

Dove? Sembra fisso, vuoti i movimenti.
È là? Si muove, un poco sempre.

Tra irrealtà e lacrime.

C’è tutto in questa sottile confusione tra la prassi del corpo e l’estetica del verso. La consapevolezza sacrale di sé, del proprio muoversi nel vivere, non trova risposte né sana il dolore. Essa è invece la domanda, l’interrogazione continua dello sguardo che contempla l’indicibile e lo rende poesia. «Anche per me / la stessa cosa, la stessa cosa vostra, un dolore violento, / cosa succede? cosa mi sta succedendo?».

Rendersi conto di quanto la sua opera, la sua domanda, aderisca al presente di questo aprile, porta con sé un leggero imbarazzo. Lo stesso di quando, da bambini, gli adulti indovinavano cosa stessimo provando con le parole esatte di una deduzione indelicata.

Il cane del nulla

Mario Benedetti, poeta italiano. Foto di proprietà dell’autore

di Andrea Cortellessa

«Scusatemi tutti.»

 

Due foto, alla fine della storia. La prima l’hanno vista tutti; è quella del Mario Benedetti “sbagliato” messa in pagina da «Repubblica». L’altra l’ha scattata Viviana Nicodemo e l’ha pubblicata qui Milo De Angelis. Due immagini che, come si dice, dicono più di mille parole. La prima dice della trasandatezza criminale del nostro tempo (dove a fare più rabbia è la coazione burocratica di dover “coprire” – nel minor tempo possibile, con la minore cura possibile – un “fatto” di cui non frega nulla; perché nulla, in verità, frega di nulla; e allora meglio, tanto meglio, sarebbe stato il silenzio – cioè il nulla, appunto). La seconda, semplicemente, continuerà a guardarci a lungo. (Ma tutte e due si riguardano; l’una non si capisce senza l’altra: e per questo, insieme, ci riguardano.)

E poi il video. Esequie in remoto: come tutto, ormai (ma come tutto, al di là delle apparenze, già era diventato da un pezzo). È stato detto che ricordano quelle di Mozart nella fossa comune. Già; ma quella che ci ricordiamo è la scena di Amadeus, dove lo squallore aveva un suo accattivante package hollywoodiano; era uno squallore glamour. Qui invece lo squallore ha la brutalità, la letteralità della plastica e del cemento, del vento freddo nel microfono; delle parole al vento di un prete impaurito, che va di fretta. Lo squallore osceno di chi, a futura memoria, comunque registra; e di chi, come me in questo momento, comunque propala. Continua a leggere