Enzo Golino, “Dentro la letteratura”

“Gli storici dovrebbero tener conto dei documenti letterari per ricostruire il senso e le vicende di un’epoca”. Parola di Enzo Golino, che con questo spirito ha affrontato la stesura del suo ‘Dentro la letteratura, Ventuno scrittori parlano di scuola, natura, operai, lingua e dialetto, storia’, edito da Bompiani nel 2011, (€ 9,90).

Critico militante tra i più noti, dal 1972 al 1974 l’autore ha intervistato Giorgio Bassani, Lalla Romano, Lucio Mastronardi, Domenico Rea sulla scuola; Alberto Moravia, Luigi Malerba, Raffaele La Capria, Attilio Bertolucci sulla natura.

Ancora, Carlo Bernari, Romano Bilenchi, Vasco Pratolini, Ottiero Ottieri, Paolo Volponi, Nanni Balestrini sul lavoro operaio; Pier Paolo Pasolini, Tullio De Mauro, Carlo Cassola, Ignazio Buttitta, Umberto Eco sulla lingua e il dialetto; Franco Fortini, Arrigo Benedetti, Alberto Moravia sulla storia.

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Fabrizio Centofanti, Non superare le dosi consigliate

Non superare le dosi consigliate, di Fabrizio Centofanti, Effatà Editrice 2008

Dalla prefazione di Giuseppe Panella
DI CERTE COSE CHE SI DICONO MEGLIO IN PROSA
Le “dosi” letterarie di Fabrizio Centofanti

1. Pagine del libro della vita
Quasi ogni giorno, oberato o no che sia di lavoro fisico e mentale, affaticato oppure assonnato, sia che riposi nella calma di una pausa strappata alla sua vita frenetica o sia pur sempre preso dalla fretta dell’esistenza materiale e in preda alle animose necessità della vita quotidiana e della sua opera pastorale, Fabrizio Centofanti trova il tempo di scrivere una pagina di meditazione attenta e sofferta sul mondo e sulle sue vicende liete e/o avverse. Sono dosi brevi ma corpose e spesso aspre di “medicina letteraria”. Sono pagine per la vita e parole in attesa di qualcosa di meglio e di più consolante rispetto alle fragorose e temibili vicende scandite dal tempo dell’oggi. Continua a leggere

Altre Scritture, Antonio Celano

 Antonio Celano
a cura di Luigia Sorrentino

«Sono nato nel 1966 in una zona rurale della Basilicata, dalla bellezza scabra, periferica. Ricordo che d’estate, quando tutti avevano preso l’abitudine di riversarsi al mare sulle spiagge della vicina Calabria, a me piaceva fare la strada inversa. Andavo in campagna: mio nonno mi portava a pascolare le vacche, mia nonna si assopiva tardi accanto al fuoco col lavoro in mano. Ne amavo le acque correnti, i pioppi e i vincastri, il sapore dei gelsi e dei fichi. Ascoltavo la notte gli insetti far gemere il legno della scala che portava in soffitta, il soffio delle froge nella stalla di sotto, mentre i cani abbaiavano al buio accecante.

Lassù la corrente elettrica arrivò solo nel ’74: mio nonno tracciò la data nel cemento fresco del traliccio, come ad ammonire per una modernità intempestiva e inutile. In campagna io mi sentivo vivo, ma quello spazio era già un ventre vuoto. In quegli anni persino il paese, così legato al mondo contadino, iniziava a cambiare come di polarità, iniziava a orientarsi alle città, lieto di poterne costituire il cascame. Lo dico perché di questa logica son rimasto vittima: per anni non sono tornato in Basilicata se non per qualche giorno all’anno, ho studiato industrie e operai. Tuttavia, oggi mi rendo conto di aver scelto sempre città-non-città prive di grandi opportunità, di essermi portato dentro un modello che non poteva che naufragare, in seguito, in una nostalgia per la mia terra che non si era mai sopita. Continua a leggere