Yves Bonnefoy (1923 – 2016)

Yves Bonnefoy (ANSA)

Je ne savais dormir sans toi, je n’osais pas
Risquer sans toi les marches descendantes.
Plus tard, j’ai découvert que c’est un autre songe,
Cette terre aux chemins qui tombent dans la mort.
Alors je t’ai voulue au chevet de ma fièvre
D’inexister, d’être plus noir que tant de nuit,
Et quand je parlais haut dans le monde inutile,
Je t’avais sur les voies du trop vaste sommeil.
Le dieu pressant en moi, c’étaient ces rives
Que j’éclairais de l’huile errante, et tu sauvais
Nuit après nuit mes pas du gouffre qui m’obsède,
Nuit après nuit mon aube, inachevable amour.

Je me penchais sur toi, vallée de tant de pierres,
J’écoutais les rumeurs de ton grave repos,
J’apercevais très bas dans l’ombre qui te couvre
Le lieu triste où blanchit l’écume du sommeil.
Je t’écoutais rêver. Ô monotone et sourde,
Et parfois par un roc invisible brisée,
Comme ta voix s’en va, ouvrant parmi ses ombres
Le gave d’une étroite attente murmurée!
Là-haut, dans les jardins de l’émail, il est vrai
Qu’un paon impie s’accroît des lumières mortelles.
Mais toi il te suffit de ma flamme qui bouge,
Tu habites la nuit d’une phrase courbée.
Qui es-tu? Je ne sais de toi que les alarmes,
Les hâtes dans ta voix d’un rite inachevé.
Tu partages l’obscur au sommet de la table,
Et que tes mains sont nues, ô seules éclairées!

*
Non sapevo dormire senza di te, non osavo
Senza di te affrontare i gradini declivi.
Più tardi ho scoperto che questo è un altro sogno,
La terra dai precipiti sentieri nella morte.
Ti ho voluta allora al capezzale della mia febbre
Di non esistere, d’essere nero più di tanta notte,
E quando nel mondo inutile parlavo ad alta voce,
Avevo te, sulle vie del troppo vasto sonno.
Il dio in me urgente erano rive che rischiaravo
Con l’olio errante, ed eri tu a salvare i miei passi
Di notte in notte dalla voragine d’angoscia,
Di notte in notte, tu, alba, senza fine amore. Continua a leggere

Sergej Esenin (1895-1925)

Sergej Esenin

Io vado errando sulla prima neve,
nel cuore mughetti di forze scoppiate.
La sera ha acceso sopra la mia strada
la candela turchina d’una stella.

Io non so se ci sia luce o buio,
se nella selva canti il gallo o il vento.
Forse, invece dell’inverno sui campi,
cigni si sono posati sul prato.

Tu sei bella, o bianca distesa!
Il lieve gelo mi riscalda il sangue!
Ho desiderio di stringere al corpo
i seni nudi delle betulle.

O folta torbidità boschiva!
O gaiezza dei campi nevosi!…
Ho desiderio di serrare tra le braccia
i fianchi di legno delle vétrici.

*

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L’occulta “Bufera” di Eugenio Montale

Eugenio Montale, La bufera e altro, edizione commentata da Ida Campeggiani e Niccolò Scaffai

NOTA DI LETTURA DI ALBERTO FRACCACRETA

Il libro forse più oscuro, stratificato, notoriamente più discusso di Eugenio Montale. Sin dal titolo: la bufera, cioè «la guerra, in ispecie quella guerra dopo quella dittatura; ma è anche guerra cosmica, di sempre e di tutti», come sottolineò il poeta stesso in una lettera a Silvio Guarnieri. E che valore epistemico si può conferire invece ad altro? Riempitivo, esornativo? O sostanziale? L’Altro? Si attendeva da molto tempo — benché nel 2012 sia uscito un bellissimo commento a cura di Marica Romolini — un’esegesi mondadoriana dell’opus magnum di Montale, unica silloge dell’autore genovese a non essere stata ancora censita criticamente (assieme agli Altri versi, usciti però direttamente nell’Opera in versi del 1980 e non come testo autonomo): finalmente la lacuna è colmata, La bufera e altro (edizione commentata da Ida Campeggiani e Niccolò Scaffai, con scritti di Guido Mazzoni, Gianfranco Contini e Franco Fortini, «Lo Specchio» Mondadori, pp. 544, € 24) è disponibile, l’«Everest dell’interpretazione» scalabile. Continua a leggere

Alessandro Moscè, da “La vestaglia del padre”

Alessandro Moscè

Lo sanno

La polvere nascosta nella camera da letto,
gli interstizi delle mattonelle nel pavimento nell’atrio
e gli armadi a muro lo sanno
che non ci sei più.
Lo sa la borsa dell’acqua calda
sotto la vestaglia che indossa qualcun altro
che dalla cucina maschera un sospiro infaticabile
non credendo che il nulla sia nulla,
in un marzo discreto di mezzo sole
che arriverà nei glicini rampicanti e nel bianco sfumato delle azalee.
Lo sa la signora garbata del piano di sopra che non parla
e lo sanno le cravatte annodate sulle grucce,
chiuse al buio che non vediamo

Ad ogni ora

Una volta, una volta sola
dovrebbe aprirsi l’accesso di una cantina sotto le scale
in quel passaggio che assomiglia alle uscite di sicurezza
dove darsi la mano, guardarsi tre, quattro secondi
e salutarsi con gli occhi arrossati.
Oppure comporre un numero telefonico,
sentire un fruscio di correnti, un buongiorno
e nient’altro.
Sono sogni che ci farebbero trovare pronti
ad ogni ora, specie di notte,
con il batticuore sotto il pigiama
e una pila in mano,
tu con la vestaglia regale del padre Continua a leggere

Sensualità e violenza nella poesia di Vicki Feaver

Vicki Feaver, Credit ph. Caroline Forbes

The Handless Maiden *

When all the water had run from her mouth,
and I’d rubbed her arms and legs,
and chest and belly and back,
with clumps of dried moss;
and I’d put her to sleep in a nest of grass,
and spread her dripping clothes on a bush,
and held her again – her heat passing
into my breast and shoulder,
the breath I couldn’t believe in
like a tickling feather on my neck,
I let myself cry. I cried for my hands
my father cut off; for the lumpy, itching scars
of my stumps; for the silver hands –
my husband gave me – that spun and wove
but had no feeling; and for my handless arms
that let my baby drop – unwinding
from the tight swaddling cloth
as I drank from the brimming river.
And I cried for my hands that sprouted
in the red-orange mud – the hands
that write this, grasping
her curled fists

La fanciulla senza mani *

Quando l’acqua smise di uscirle dalla bocca,
e le ebbi strofinato gambe e braccia,
e torace e pancia e schiena,
con ciuffi di muschio secco;
e messa a dormire in un nido d’erba,
e stesi i panni fradici su un cespuglio,
e tenuta di nuovo stretta – il suo calore mi penetrava
nel petto e nella spalla,
il respiro cui non potevo credere
come una piuma a solleticarmi il collo,
mi lasciai andare al pianto. Piansi per le mani
che mio padre mi aveva tagliato; per i moncherini
tormentati dal formicolio di rugose
cicatrici; per le mani d’argento –
me le aveva date mio marito – che filavano e tessevano
ma non sentivano; e per le braccia senza mani
che avevano lasciato cadere la mia bambina – scivolata
dalla stretta fasciatura
mentre bevevo dal fiume rigonfio.
E piansi per le mani che germogliarono
dal fango rossiccio – le mani
che scrivono questo, e stringono
il riccio del suo pugno.

* In Grimm’s version of this story the woman’s hands grow back because she’s good for seven years. But in a Russian version they grow as she plunges her arms into a river to save her drowning baby.

* Nella versione dei Grimm le mani della donna ricrescono perché è stata buona per sette anni. Ma in una versione russa ricrescono mentre tuffa le braccia in un fiume per salvare la sua bambina che sta annegando.

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