Lorenzo Babini, “L’arca del diluvio”

Lorenzo Babini

DI LORENZO BABINI

 

Ci sono civiltà che ci hanno lasciato, attraverso i miti, le cronache e le opere letterarie, la testimonianza di calamità che hanno sconvolto il genere umano nel corso della storia, ponendolo di fronte al limite della propria fine.

L’evento del diluvio universale può fungere in questo senso da prototipo, sia per il suo primato cronologico che per la sua esorbitante portata: lo sterminio dell’uomo deciso perentoriamente da forze superiori. Qualcuno è però destinato a salvarsi e il racconto biblico, introducendo varianti alle versioni che l’hanno preceduto, si sviluppa insistendo soprattutto su questo aspetto.

Anche nelle antiche versioni assire e babilonesi, nate a partire da testi ancora precedenti, l’eroe si salva e ottiene sia l’immortalità che la possibilità di soggiornare in un’oasi di pace alla foce dei fiumi. Quando però lo ritroviamo in scena, nella tavola XI dell’Epopea di Gilgamesh, ci appare come una figura lontana e scolorita: le sue parole ristabiliscono l’ordine, affermano in maniera netta che la vanità di ogni gesto, che l’uomo è fatto per la morte. D’un colpo ci troviamo agli antipodi di quella grandezza, di quel sacrificio e di quella generosità che aveva portato l’eroe a farsi carico della semenza di ogni forma di vita, affinché non perisse nel diluvio.

Nella versione biblica Noè non viene premiato con l’immortalità e la sua storia assume contorni apparentemente più prosaici: la sua arca si incaglia sui monti Ararat, dove scopre la viticoltura e inaugura la produzione di vino, facendo per primo l’esperienza dell’ebbrezza. Gli avvenimenti sono inquadrati in un complessivo percorso di alleanza con Dio, riservato non ad un singolo ma ad una umanità nuova, non immune da crisi, angosce e sviamenti, nel continuo susseguirsi di generazioni alle prese con i propri deliri e vacillamenti, come vacillante e incerta era la sovrabbondante arca, carica di ogni forma di vita.

La sovrabbondanza dell’arca è anche la sovrabbondanza della poesia che l’ha fatta conoscere a noi, a cui va, come minimo, il merito averci tramandato la sapienza di questo “prima” del mondo. Chi di noi, negli ultimi mesi, esposto all’estraneità dell’isolamento, costretto al silenzio e quindi all’ascolto, avrà avuto modo di esperire in sé la feroce e improvvisa emersione del proprio passato, l’incapacità di trovare consolazioni, la fragile nudità dell’io di fronte al proprio tempo e agli avvenimenti, non potrà non avere avvertito anche il richiamo alla ricchezza della propria vita interiore e, con esso, il desiderio di una parola in grado di riconciliarsi con l’intima essenza dei propri sconvolgimenti e all’angoscia del tempo presente. Continua a leggere

Dario Cecchi, “La macchina della storia”

Dario Cecchi

di DARIO CECCHI

 

Mi è capitato di scrivere che una novità da subito evidente nell’attuale crisi pandemica è il fatto che la natura ha rimesso in modo la “macchina della storia”. Credo ancora che le cose stiano così, a distanza di circa tre mesi dall’inizio del lockdown. A ulteriore conferma di questa convinzione sta il fatto di aver letto altre persone – le più disparate: giovani, anziani; intellettuali, “gente comune” – pensare la stessa cosa. Se le cose stanno così, se cioè il Covid-19 ha un significato storico, mi sembra utile chiedersi quale sia.

Va detto innanzi tutto che questa idea assume una luce particolare sotto il profilo filosofico. Dal punto di vista strettamente storiografico, della storia di questa pandemia che un giorno sarà scritta, è già evidente che si tratti di un evento di svolta. Pur terribili, HIV, Ebola o SARS, solo per citare alcuni casi recenti, sono virus che siamo riusciti a mantenere circoscritti a determinate aree geografiche o che si sono potuti contenere ponendo particolare attenzione a determinati comportamenti o pratiche. Hanno colpito l’immaginario in modo diverso: erano virus di continenti lontani, oppure evocavano un rapporto “proibito” con il corpo. Il Covid-19 colpisce invece senza distinzioni: è democratico, come si ripete spesso. Inoltre questa condizione interessa anche l’Occidente ricco e industrializzato, che dopo la seconda guerra mondiale si era progressivamente abituato all’idea di aver neutralizzato gli aspetti più dolorosi della vita umana. In secondo luogo il Covid-19 ha scatenato la prima pandemia dell’epoca della globalizzazione. L’interpretazione di questa novità richiederà una lettura attenta del fenomeno. Appare chiaro però che sia le traiettorie di propagazione del virus sia la rapidità di tale propagazione sono collegate con l’accorciamento delle distanze e con la rapidità degli spostamenti che caratterizzano il mondo globalizzato.

Fin qui siamo alla rilevanza storica del fenomeno. Ma la “storicità” dell’evento invoca anche una riflessione filosofica: occorre chiedersi quale immagine del mondo ci accingiamo ad abbandonare, perché non risponde più alle condizioni politiche attuali, e quale nuova immagine del mondo si sta formando. Dal 1989, con la caduta dell’impero sovietico e la fine della guerra fredda, si concludeva quello che lo storico britannico Eric Hobsbawm ha definito il “secolo breve”. L’eccezionalità di questo evento geopolitico ha riportato in auge, in particolare negli ambienti neoconservatori statunitensi, l’idea che fossimo prossimi alla “fine della storia”: ne è testimonianza il saggio di Francis Fukuyama The End of History and the Last Man. Secondo questa teoria il conflitto tra le superpotenze, che stava abbandonando il terreno dello scontro ideologico, avrebbe visto il trionfo del liberalismo in politica e del liberismo in economia. Questa idea trovava un’eco in analoghe ipotesi, più vicine alla “sinistra” intellettuale, in special modo europea: penso alla lettura della filosofia della storia hegeliana condotta da Alexandre Kojève, secondo il quale la storia culminerebbe in un mondo gli individui avrebbero smesso di battersi per l’affermazione di idee e si sarebbero dedicati al mero “trascorrere” della vita. Ma penso anche alla, altrettanto criticata oggi, teoria di Jean-François Lyotard sul postmoderno come fine delle “grandi narrazioni” collettive: ideologie, politica, arte e così via discorrendo. Continua a leggere

Una poesia inedita di Vivian Lamarque

Vivian Lamarque credits ph Dino Ignani

DEL CADERE E RIALZARSI
di Vivian Lamarque

Era così pulito il cielo tutt’intorno

che strano dicevano dai rami
è più leggera l’aria e il nido meno nero.

Ma sotto cadevano vecchini come foglie
uno le sue gialle per paura nascondeva
le tingeva di verde le legava strette al ramo
come bambine spaventate a una grande mano.

O infanzia nostra e del mondo, se cadevamo,
un cerotto un bacio e via ci rialzavamo.
Le parole erano nuove, si baciavano in rima,
era il primo tempo, il tempo d’oro del Prima.

(camminavamo, cammineremo, ci rialzeremo).

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Fabrizio Bajec, “Nel migliore dei mondi”

Fabrizio Bajec

 

di Fabrizio Bajec

 

La crisi sanitaria che stiamo attraversando a livello mondiale è in fondo pur sempre una crisi sistemica, sul vecchio modello delle scosse che fanno cadere (metaforicamente) uno a uno i pezzi del domino, perché questa è la disposizione dei tasselli che è stata creata. Ed è, una volta di più, una lezione sia sulla fragilità della vita umana (l’effimero dei discorsi che stanno a zero di fronte alla morte), sia sulla cattiva organizzazione della vita sulla terra, quando si sceglie un modello basato sulla competizione di interessi contrapposti e la sopraffazione dei mastodonti ai danni dei nani (una multinazionale oggi può far piegare un governo). Ma la buona notizia è che si può trarre anche una lezione positiva di interdipendenza, se mettiamo da parte il lato oscuro della globalizzazione e pensiamo sempre in termini di co-esistenza (« io sono perché tu sei »).

Sulle prime, non abbiamo avuto il tempo di riflettere a piani di resistenza o disobbedienza civile di fronte all’imperativo di barricarsi dentro casa e portare con noi tutti i nostri cari. Abbiamo obbedito, ci siamo sottomessi, da bravi cittadini, reagendo per contagio con la paura, sentimento fin troppo umano, grazie a cui ogni tipo di potere regna incontrastato.

Per il suo intervento pubblico, al quanto rapido, Giorgio Agamben è stato linciato dalle critiche di chi vede in lui solo un filosofo senza cuore che vorrebbe spiegare astrattamente l’ordine del mondo con la biopolitica. Ma Agamben, almeno per me, non ha avuto torto ad alludere a una strategia dello shock, riproponendo la teoria dello stato di eccezione permanente come tattica di controllo sulle masse. Forse davvero siamo passati dal capro espiatorio terrorista, che giustifica la sospensione dello stato di diritto, al pretesto della contaminazione (altro modo di praticare il terrorismo).

Non voglio certo insinuare che il virus sia stato diffuso e fabbricato volontariamente, e nemmeno che sia stato sottovalutato da Agamben. Ma certo, l’intervento umano sulla natura e le leggi del mercato alterano la diffusione di un virus e gli equilibri economici mondiali. Così, statisticamente, il Covid-19 non ha mietuto più vittime della febbre spagnola di inizio Novecento, anzi. Ma la risposta dei vari governi è stata oggi senza comune misura più drastica di un secolo fa, perché l’assetto dei rapporti commerciali e politici è nettamente diverso da quello di allora; con tutte le fragilità che questi nuovi rapporti tra potenze imperialiste comportano.

La conseguenza della chiusura delle frontiere, del confino, delle attività sociali relegate agli scambi in rete, non è stata quella di farci sentire più responsabili ma più succubi e arrabbiati perché impotenti. Di qui lo sproloquio per mezzo dei social network sulla situazione inedita e globale dove chiunque sappia leggere e scrivere si sentiva autorizzato a filosofeggiare e a produrre scritti di circostanza (diari di clausura, poesie accorate, articoli d’opinione come questo!). Ci siamo sorpresi dell’insostenibile leggerezza dell’essere, abbiamo accusato il prossimo di giocare la parte dell’untore incosciente, applaudito al balcone chi rischiava (e perdeva) la sua vita per salvare col proprio lavoro i malati, mentre non eravamo scesi in piazza per denunciare le loro cattive condizioni di lavoro e i pochi mezzi a disposizione in tutti questi anni. Certo, abbiamo anche rimesso in discussione il nostro stile di vita, poco sobrio, ma questo esercizio non è di lunga durata. Ciò che abbiamo temuto, soprattutto, è la durata dello stato di eccezione: quando finirà questa distanza imposta? Per quanto tempo dovrò lavorare da schermo a schermo? L’essere umano non è fatto per l’isolamento, ci siamo detti, e abbiamo gioito nel vedere che grandi atti di solidarietà nascevano un po’ ovunque, con la raccolta alimentare e l’intervento di vere e proprie brigate volontarie, mobilitate per il sostegno dei più bisognosi. Siamo stati anche invidiosi di chi si è potuto muovere per le grandi ricorrenze (come in Grecia per il primo maggio, se a qualcuno ancora interessa). Continua a leggere

Alessandro Santese, “Un grande, osceno silenzio”

Alessandro Santese

AI PIEDI DEL TEMPO

ALESSANDRO SANTESE

Restano in silenzio, riguardandosi l’una nel riverbero degli occhi dell’altra, le due donne arrivate sul luogo. La pietra che trovano è vuota: il vuoto le stringe. Il corpo, amato, disamato, toccato e caduto, non c’è.

Il corpo che è nulla e abitava una voce, il corpo che è molle e robusto, non c’è.

Giunte sul luogo fresco del ricordo, per piangere ed ossequiare il momento del pianto, così il ricordo già evapora, prima che mano amica o nemica lo contamini, allora come sempre, disseppellendo se stesso nell’aria come la morte venuta fuori un giorno dal suo giardino, rigoglioso di margherite ed asfodeli: invisibile, inizierà a camminare allora tra le strade dei superstiti, scalza, forse, forse compunta, i quali parleranno bisbigliando di lei e del ricordo di lei mentre lei non è che già lì. Da sempre. Da prima di sempre. Dentro una luce accecante. Ne faranno, dell’episodio manchevole, coloro che restano, un monumento ben fatto. Nei secoli; lo chiederanno anche ai secoli.

Può accadere che accorrendo sul luogo del tragico per testimoniarne l’essenza, come gettandogli trenodicamente le braccia verso, si perda, forse, proprio il dono essenziale del tragico. Un grande, osceno silenzio è lì. Il quale non scema, ma cresce.

Eppure tutto, in quella quiete, palpita e vibra, a ben vedere, ancora più a fondo, come il vuoto dentro il quale brulica e vibra vita e natura salendo. Nulla, se così fosse, vi sarebbe da colmare con l’affanno improvviso del respiro, perché anche il nulla lì sarebbe l’eco di un respiro, forse, di troppo. E mentre un primo immediato movimento testimoniale, presentendola, vorrà oscuramente appropriarsi di quella ulteriore nascosta vita, avvicinandosi troppo con il fiato al suo collo – per soffocarne così la voce più profonda, sigillata sotto metri e metri di terra chiusa in bocca all’evento – ai secondi che arriveranno, invece, ritardatari perenni in ritardo sulla storia e sulla necessità di poter dire eccomi, a loro che riconosceranno vuoto e intoccabile davvero il dolore del luogo sacro, che a loro mai non appartiene, viceversa, sarà forse dato di restituire il vuoto del luogo e dell’evento, senza volerlo, a se stesso. Alla pace di se stesso. Al suo fuoco invisibile. Così intrecciandolo, davvero, ai fili del suo ordito incessante. Continua a leggere