In memoria di te, Carlo Porta

Ritratto del poeta milanese Carlo Porta (1774-1821), in un pastello del Bruni (1821)

Sissignor, sur Marches, lu l’è marches,
marchesazz, marcheson, marchesonon,
e mì sont el sur Carlo Milanes,
e bott lì! senza nanch on strasc d’on Don.

Lu el ven luster e bell e el cress de pes
grattandes con sò comod i mincion,
e mì, magher e biott, per famma sti spes
boeugna che menna tutt el dì el fetton.

Lu senza savè scriv né savè legg
e senza, direv squas, savè descor
el god salamelecch, carezz, cortegg;

e mì (destinon porch!), col mè stà sù
sui palpee tutt el dì, gh’hoo nanch l’onor
d’on salud d’on asnon come l’è lu.

Lei è marchese, sì, signor Marchese,
marchese, marchesotto, marchesone;
io so il signor Carlo milanese
e basta, senza briciola di Don.

Lei si fa lindo e bello e prende peso
grattandosi con comodo i coglioni;
io per campare, magro, in male arnese,
mi faccio il culo in continuazione.

lei senza saper scrivere né leggere,
senza, quasi direi, saper discorrere,
si gode smancerie, vezzi, corteggi;

io qui (porca la sorte!) su quei bei
registri tutto il dì, neanche ho l’onore
d’un saluto dall’asino che è lei. Continua a leggere

Guido Mazzoni, “La pura superficie”

Guido Mazzoni

 

1. Stevens

Le foglie cadono, noi ritorniamo
al senso ordinario delle cose.
E’ come se fossimo arrivati alla fine
dell’immaginazione, inanimati in un sapere inerte.
E’ difficile persino scegliere l’aggettivo
per questo freddo vuoto, questa tristezza senza causa.
la grande struttura è diventata una casa minore.
Nessun turbante sui pavimenti impoveriti.
Mai come ora la serra ha avuto bisogno di vernice.
Il camino ha cinquant’anni e pende da una parte.
uno sforzo di fantasia è fallito, una ripetizione
nella serialità di uomini e mosche.

Eppure l’assenza di immaginazione doveva
a sua volta essere immaginata. Lo stagno grande,
il suo senso ordinario, senza riflessi, foglie,
fango, acqua come vetro sporco,
esprime un certo tipo di silenzio, il silenzio
di un topo che esce fuori a guardare
lo stagno grande, lo spreco delle ninfee. Tutto questo
doveva essere immaginato come una conoscenza inevitabile
e imposta, come impone la necessità.

Mario Baudino, “La forza della disabitudine”

ARLEQUIN

Tendi a nascondere di te
mia inviolabile
il meglio o il peggio?
Tendi a coprirti con veli colorati
e a sorridere mite

Tendi a creare di te
mia invulnerabile
fughe di prismi e sciabordii di luce
io tasto gli antri e sento
che ci dev’essere almeno un sottoscala

E il mio amore mi dice
che per caso ci sono passato

Tendi a creare di te
mia venerabile
un’alta coerenza e un mito nobile
io annuso profumi
non tutti allineati

E il mio amore scoprirà di te
l’anima più volatile Continua a leggere

“Autografo”, a Natalia Ginzburg

Questo numero monografico di “Autografo”, dedicato a Natalia Ginzburg, prende avvio da un convegno organizzato all’Università per Stranieri di Siena nel marzo del 2017. Accanto allo studio di singole opere, quali Lessico famigliare La famiglia Manzoni (Carbé e Poli), vengono affrontati vari aspetti della scrittrice e della traduttrice: le scelte linguistiche e stilistiche dei testi narrativi e teatrali (Grignani), le peripezie della versione italiana di Proust (Scarpa), l’interesse per i libri per ragazzi (Mattarucco), l’influsso esercitato da Ivy Compton-Burnett e Harold Pinter (Erriu), la ricezione critica (Baldini). Arricchiscono il volume una testimonianza della figlia Alessandra e un piccolo corpus di testi inediti o di difficile reperimento (prefazioni, articoli, lettere). Composto per frammenti – una scelta congeniale alla sua tecnica di narratrice –, questo insieme ci restituisce una Natalia Ginzburg a figura intera. Continua a leggere

Mariachiara Rafaiani, “Dodici ore”

di Tommaso Di Dio

Dodici ore è l’aspro resoconto di una felice parzialità. Dodici sono infatti le ore che formano la metà di un giorno e dodici è numero che si impunta su di una soglia e spartisce, per un giorno solo all’anno, la faccia in luce da quella in ombra. Il numero dodici sembra ricordarci che c’è una zona visibile e un’altra oscura, incosciente e perduta, dove tutto può accadere e dove ogni trasformazione trova il suo invisibile inizio. Nondimeno, il numero dodici, fin dalle più antiche tradizioni, è legato alla completezza, alla perfezione: dodici è il numero di chi trova compimento. Dodici sono le tribù che formeranno un popolo, dodici gli amici che saranno testimoni di un dio bizzarro che volle farsi carne e dodici sono i mesi che chiudono un anno come anche le case delle stelle che fin da Babilonia e dalle civiltà dell’Indo indicarono il ritorno del tempo. In questo numero c’è la gioia della perfezione, la festa della totalità; eppure, al contempo, in esso si annida il senso della parte, della partizione, di ciò che, diviso, scorre.

Con questo libro, siamo di fronte ad un esordio, ad una prima prova che non vuole dissimulare mai, neanche per un momento, il suo essere opera integrale di una giovinezza che ancora dura. Una poesia, quella della Rafaiani, che si dichiara programmaticamente in cerca di intensità; che del tempo cerca il picco, la vertigine: il momento quando il tempo sembra si annulli e si viva una vita ironicamente infinita («Il nostro tempo è infinito, buon viaggio», p. 13). Pregio e al contempo suo limite, pagina dopo pagina, si procede fra momenti apicali. Continua a leggere