La poeta russa Marina Cvetaeva

Marina Cvetaeva

Поэт – издалека заводит речь.
Поэта – далеко заводит речь.

Планетами, приметами, окольных
Притч рытвинами… Между да и нет
Он даже размахнувшись с колокольни
Крюк выморочит… Ибо путь комет –

Поэтов путь. Развеянные звенья
Причинности – вот связь его! Кверх лбом
Отчаетесь! Поэтовы затменья
Не предугаданы календарем.

Он тот, кто смешивает карты,
Обманывает вес и счет,
Он тот, кто спрашивает с парты,
Кто Канта наголову бьет,

Кто в каменном гробу Бастилий
Как дерево в своей красе.
Тот, чьи следы – всегда простыли,
Тот поезд, на который все
Опаздывают…
– ибо путь комет

Поэтов путь: жжя, а не согревая.
Рвя, а не взращивая – взрыв и взлом –
Твоя стезя, гривастая кривая,
Не предугадана календарем!

8 апреля 1923 

Da lontano – il poeta prende la parola.
Le parole lo portano – lontano.

Per pianeti, sogni, segni… Per le traverse vie
dell’allusione. Tra il sì e il no il poeta,
anche spiccando il volo da un balcone
trova un appiglio. Giacché il suo

è passo di cometa. E negli sparsi anelli
della casualità è il suo nesso. Disperate –
voi che guardate il cielo! L’eclisse del poeta
non c’è sui calendari. Il poeta è quello

che imbroglia in tavola le carte,
che inganna i conti e ruba il peso.
Quello che interroga dal banco,
che sbaraglia Kant,

che sta nella bara di Bastiglie
come un albero nella sua bellezza…
È quello che non lascia tracce,
il treno a cui non uno arriva
in tempo…
Giacché il suo

è passo di cometa: brucia e non scalda,
cuoce e non matura – furto! scasso! –
tortuoso sentiero chiomato
ignoto a tutti i calendari…

8 aprile 1923  Continua a leggere

Mark Strand (1934 – 2014)

Mark Strand

Your shadow

You have your shadow.
The places where you were have given it back.
The hallways and bare lawns of the orphanage have given it back.
The Newsboys’ Home has given it back.
The streets of New York have given it back and so have the streets of Montreal.
The rooms in Belém where lizards would snap at mosquitos have given it back.
The dark streets of Manaus and the damp streets of Rio have given it back.
Mexico City where you wanted to leave it has given it back.
And Halifax where the harbor would wash its hands of you has given it back.
You have your shadow.
When you traveled the white wake of your going sent your shadow below, but when you arrived it was there to greet you. You had your shadow.
The doorways you entered lifted your shadow from you and when you went out, gave it back. You had your shadow.
Even when you forgot your shadow, you found it again; it had been with you.
Once in the country the shade of a tree covered your shadow and you were not known.
Once in the country you thought your shadow had been cast by somebody else. Your shadow said nothing.
Your clothes carried your shadow inside; when you took them off, it spread like the dark of your past.
And your words that float like leaves in an air that is lost, in a place no one knows, gave you back your shadow.
Your friends gave you back your shadow.
Your enemies gave you back your shadow. They said it was heavy and would cover your grave.
When you died your shadow slept at the mouth of the furnace and ate ashes for bread.
It rejoiced among ruins.
It watched while others slept.
It shone like crystal among the tombs.
It composed itself like air.
It wanted to be like snow on water.
It wanted to be nothing, but that was not possible.
It came to my house.
It sat on my shoulders.
Your shadow is yours. I told it so. I said it was yours.
I have carried it with me too long. I give it back.

By Mark Strand

 

La tua ombra

Hai la tua ombra.
I luoghi in cui sei stato l’hanno restituita.
I corridoi e i prati spogli dell’orfanotrofio l’hanno restituita.
La Newsboys Home l’ha restituita.
Le strade di New York l’hanno restituita e anche le strade di Montreal.
Le camere di Belém dove le lucertole divoravano le zanzare l’hanno restituita.
Le strade scure di Manaus e quelle afose di Rio l’hanno restituita.
Città del Messico dove te ne volevi andare l’ha restituita.
E Halifax dove il porto si lavava le mani di te l’ha restituita.
Hai la tua ombra.
Quando viaggiavi la scia bianca del tuo incedere affondava
l’ombra, ma quando arrivavi la trovavi ad attenderti.
Avevi la tua ombra.
Le soglie che varcavi ti sottraevano l’ombra e quando uscivi te la restituivano.
Avevi la tua ombra.
Anche quando te la dimenticavi, la ritrovavi; l’ombra era stata con te.
Una volta in campagna l’ombra di un albero coprì la tua ombra
e tu non venisti riconosciuto.
Una volta in campagna pensasti che la tua ombra fosse proiettata da un altro.
L’ombra non disse nulla.
I tuoi abiti portavano dietro la tua ombra; quando li toglievi, lei si diffondeva come il buio del tuo passato.
E le tue parole che volavano come foglie in un’aria persa, in un luogo che nessuno conosce, ti hanno restituito la tua ombra.
Gli amici ti hanno restituito la tua ombra.
I nemici ti hanno restituito la tua ombra. Hanno detto che era pesante e avrebbe coperto la tua tomba.
Quando moristi la tua ombra dormiva sulla bocca del forno e mangiò come pane i ceneri.
Esultava tra le rovine.
Vigilava mentre gli altri dormivano.
Risplendeva come cristallo tra le tombe.
Componeva se stessa come l’aria.
Voleva essere come sull’acqua.
Voleva non essere nulla, ma non era possibile.
Venne a casa mia.
Mi sedette sulle spalle.
La tua ombra è tua. Glielo dissi. Le dissi che era tua.
L’ho portata con me troppo tempo. La restituisco.

Traduzione di Damiano Abeni
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Yun Dong Ju, “Vento blu”

Yun Dong Ju (1917- 1945)

YUN DONG JU nasce il 30 dicembre 1917 a Longjing, nell’allora Manciuria, ora Cina settentrionale. Nel 1940 si laurea alla Yeonhui Techical School, che in seguito diventerà la Yonsei University.
Dopo la laurea si appresta a pubblicare una raccolta di diciannove poesie intitolata Cielo, vento, stelle e poesia, ma il professore al quale mostra la raccolta gli consiglia di rimandare la pubblicazione a un momento meno turbolento al fine di evitare la censura.
Nel 1942 si trasferisce in Giappone e e tra nel dipartimento di letteratura della Rikkyo University a Tokyo. Sei mesi dopo si sposta a Doshisha University a Kyoto.
Il 10 luglio viene arrestato per aver manifestato per l’indipendenza coreana. I suoi scritti vengono presi in esame e assunti come prove a suo carico. Il 31 marzo del 1944 Yun Dong Ju viene condannato dalla corte regionale di Kyoto a due anni di reclusione nel carcere di Fukuoka per aver violato la quinta legge sul mantenimento dell’ordine pubblico. La mattina del 16 febbraio 1945 Yun Dong Ju muore durante il periodo di reclusione.
Ancora oggi non sono chiare le cause della sua morte. Si pensa che nel carcere di Fukuoka dov’era recluso fossero stati messi in atto esperimenti medici sui detenuti.
Nel 1948 per interessamento dell’amico Chong Chiyong, al quale Yun Dong Ju aveva affidato alcune delle sue poesie scritte in Giappone, viene pubblicata postuma la raccolta di trentuno poesie Cielo, vento, stelle e poesia.

Questa edizione è a cura di Eleonora Manzi, ed è la prima traduzione in italiano dell’intera opera poetica conosciuta di Yung Dong Ju, (Ensemble editore, 2020).

PROLOGO

Spero di guardare il cielo fino al giorno della mia morte
senza provare la minima vergogna,
anche per il vento che agita le foglie
ho provato tormento.
Con il cuore che celebra le stelle
so che debbo amare tutto ciò che va incontro alla morte
e devo seguire ogni strada
che mi è stata assegnata.

Anche questa notte il vento graffia le stelle.

20 novembre 1941

 

AUTORITRATTO

Giro solitario ai piedi della montagna, vado verso un
[campo di riso dove trovo un pozzo abbandonato e
[guardo dentro.

Nel pozzo vedo la luna splendente, le nuvole che si
[addensano, il cielo vasto che si dilata, il vento blu e
[l’autunno.

Vedo anche un uomo.
Senza una ragione lo odio e mi allontano.

Mentre mi allontano provo pietà per lui. Torno
[indietro e l’uomo è ancora là dentro.

Di nuovo provo odio per lui e vado via.
Mentre mi allontano quell’uomo inizia a mancarmi.

Nel pozzo vedo la luna splendente, le nuvole
[addensate, il cielo vasto che si dilata, il vento blu,
[l’autunno e c’è un uomo simile a un ricordo.

Settembre 1939 Continua a leggere

Yang Lian, da “Origine”

Yang Lian

The Landscape in the Room

thirty-two years old heard enough lying
no landscape can ever again enter this room
a corn-faced stranger
stands at the door hawking putrid stones
displaying tongue-fur a kind of eternity ground between the teeth

they or you are both cold cold enough to want
to be vomited up like the profane pictures on the walls
memory is a whole squad of weakening addresses
autumn’s bearded weeds dead under a bare yellow-gold foot

Someone (leaning) by the window hears the herds of stars disappear
the night-long wind’s sound seems like falling pears
the empty room is thrown away

wavering and wavering again in your naked flesh
dismemberment like sky and water
wet sun forgot everything as it howled in pain
no landscape can ever again enter this landscape
to do you to death

until the last bird has also escaped into the sky
colliding within that hand frozen into blue veins

wherever you lock yourself
there the room is fixed spacious echoes
recite the darkness
bury your heart’s only landscape

lie

Il paesaggio nella stanza

a trentadue anni ha udito abbastanza menzogne
alcun paesaggio potrà entrare ancora in questa stanza
uno straniero dal volto banale
sta davanti alla porta divulgando pietre putrefatte
mettendo in mostra i peli sulla lingua una specie di territorio tra i denti

loro o tu siete freddi freddi abbastanza da volere
venire rimessi come i quadri profani sui muri
la memoria è un intero drappello di indirizzi affievoliti
come l’erbaccia barbuta dell’autunno morta sotto un piede nudo giallo-oro

Qualcuno (affacciato) alla finestra sente la mandria delle stelle scomparire
il suono del vento che dura tutta la notte assomiglia al cadere delle pere
la stanza vuota viene buttata via
oscillando e oscillando ancora nella tua carne nuda
smembrata come il cielo e l’acqua

il sole bagnato ha dimenticato tutto mentre urla dal dolore
nessun paesaggio potrà entrare mai più in questo paesaggio
a farti morire

finché l’ultimo uccello non sia scappato nel cielo a sua volta
scontrandosi in quella mano congelata nelle vene blu

ovunque ti chiuda
là la stanza è bloccata echi spaziosi
a recitare l’oscurità
seppellisci l’unico paesaggio del tuo cuore

menti Continua a leggere

La poesia di Paul Éluard

Paul Éluard

 

L’eterna primavera nella poesia di Éluard

di Mario Famularo

 

Limitare la questione stilistica sulla poesia di Éluard alle istanze e caratteristiche del movimento surrealista, per quanto fondamentali a comprenderne la storia e il percorso letterario, sarebbe un errore: la sua parola nasce da un’altissima compenetrazione di convincimento etico, vicissitudine sentimentale e trasfigurazione di tali elementi verso l’universalità dell’esperienza umana, di ogni uomo e di ogni donna.

Nel corso della sua lunga opera poetica, da Capitale de la douleur a Le temps déborde, fino a Le phénix, le figure femminili sono sempre differenti, nella biografia dell’autore: dalla dolorosa separazione con Gala, avvenuta in giovane età, al lungo sodalizio con Nusch, che terminerà con la sua morte, fino alla rifioritura piena con Dominique, che lo accompagnerà fino agli ultimi giorni della sua vita.

Ma “l’altezza del tono”, riconosciutagli anche da Fortini (che ha tradotto diversi suoi testi, in particolare raccolti in un pregevole lavoro antologico pubblicato da Einaudi) ha proprio tale caratteristica costante, nonostante i temi trattati si estendano alla riflessione civile e storica: quella sentimentale, in senso ampio.

Il perimetro delle singole personalità femminili tende a farsi sottile e a evadere dai margini identificativi e biografici, al punto che i suoi ultimi testi potrebbero benissimo riferirsi a ciascuna di esse, come se ogni donna della vita di Éluard avesse contribuito alla formazione di un’unica immagine femminile, assoluta, in cui ciascuna di esse converge; e a fronte di questo ricco femminino illimitato, le aspirazioni del poeta, anche quando sfiorano le tematiche civili, storiche e morali, tendono a replicare la medesima istanza di universalità anche con il valore umano del soggetto, dell’io lirico, verso la stilizzazione assoluta di un sentimento puro che unisce tutti gli uomini.

È una caratteristica che si evolve nel corso degli anni e delle opere, ma che già in pochi testi si può riconoscere per le caratterizzanti attribuzioni vicine al sacro, in cui l’intreccio con i residui dell’esperienza surrealista si impone in immagini cristalline, nitide, dove la dimensione del sogno si legittima come pura ed autentica interpretazione del reale.

E così la donna è “figlia di una primavera / che non finisce”, che ride dell’insensata violenza degli uomini, ed è “sempre in fiore”, con i “piedi fermi”, “tenera con i forti” e “debole con i teneri” – un’immagine in cui dolcezza e autorevolezza si intrecciano, dove la debolezza delle reciproche solitudini umane si fa possibilità di una forza illimitata che accomuni ognuna di esse: di solitudine in solitudine verso la vita.

E se la debolezza dell’ “uomo nel vuoto”, che si riconosce “sordo cieco muto / sopra un immenso piedistallo di silenzio nero”, in un “assoluto di uno zero ripetuto” sembra già, nel riconoscere la purezza della notte e l’immacolata bellezza del mondo, un’aspirazione sentimentale alla bellezza, tale debolezza si trasforma in valore umano, attraverso l’esperienza pura del sentimento, trasfigurata: “all’improvviso parlando mi sento vincitore / più chiaro e più vivo più fiero e migliore / più vicino al sole”, ed ecco che i riferimenti all’infanzia (“In me nasce un bambino … di sempre che nasce da un bacio unico”) impongono un sentire autentico e allo stesso tempo primigenio, incorrotto e viscerale, non mediato: “la morte è vinta e un bambino emerge dalle rovine / dietro di lui le rovine e la notte scompaiono”.

La notte, che nella solitudine era pura, svanisce di fronte alla potenza di questa assolutizzazione dell’esperienza sentimentale, che in Éluard diventa totalizzante, incontro tra tutti gli uomini e tutte le donne, moltiplicate in un unicum attraverso un gioco di specchi (e gli specchi sono assai frequenti nella sua poesia).

E l’immagine di questo sentimento assolutizzante, pieno e universale, che unisce ogni esperienza umana in una vitalità illimitata, innocente e sacra, pure se “in un mondo spietato”, protegge dalla morte, dalla corruzione, dalla dissolvenza, dalla caduta di senso cui si riferiva con quella “solitudine compiuta”, quel “nulla … oblio senza limiti”, perché “non c’è notte per noi / nulla di ciò che perisce può toccarti” – ed Éluard lo scrive pochi anni dopo la scomparsa dell’amata Nusch, proprio perché il sentimento sopravvive ai singoli uomini, alle singole relazioni, alla stessa specie umana, sembrerebbe suggerire, attraverso il suo riflesso (il suo specchiarsi) in ogni altra esperienza analoga, attraverso la sua assolutizzazione nella dimensione del sogno e del sacro, attraverso la consacrazione della vitalità che l’accompagna. Continua a leggere