Mariateresa Giani, “Alle radici del principio”

Mariateresa Giani


OLTRE

Se fossero l’intensità dell’affezione
la gradazione dei dolori impressi,
le onde radianti del sapere,
la purezza d’ideali e intenzioni
a indentificare agli altrui sguardi
la luce radicale che saremo
nei volti e corpi privi di spessore,
riconoscendoci, oltre la terra e il tempo,
dalle fattezze eterne spirituali?
O, forse, dal profumo del grande mazzo
di fiori di campo delle opere buone,
stretto a colorare e coprire il petto
rivelandoci?

 

IL CANTO DEL SILENZIO

Piccole anime del canto,
umili strumenti del silenzio
contemplativo musicale del regno
imponderabile dell’aria, gli uccelli
ne cantano l’anima di grazia
che li pervade e per le esigue gole,
come per cosmici portali, crea
modulazioni che intessono lo spazio,
tonalità di deliziosa pace. Continua a leggere

Alessandro Moscè, tre inediti

Alessandro Moscè

LE OMBRE PARLANO

(inediti)

A Franco Loi, il poeta dei giorni minimi

Mio caro Franco, divino testimone del bene
chiuso nella tua camicia sacerdotale
e nelle parole di angelo scese dai cornicioni,
ti interpello con il termometro sotto braccio
perché tu sai che i pazienti stringono il pugno,
che nel grigio intravedono l’oro,
che leggono rotocalchi rosa e poesie strazianti
come fiutassero l’aria gelata delle sale operatorie
e le bollicine degli antibiotici endovena.
Ma la salute è ancora un dono d’amore?
Quelle nevicate a Milano, negli anni Cinquanta
forse ti mancano se a te l’amore
fa riaffiorare la giovinezza nelle braccia
quando il malessere sale dal secondo piano
e scende nel vociare degli ascensori.
Sappiamo solo guardarci
dal fondo degli occhiali o dei bicchieri,
sorseggiare un thè freddo
in un viaggio immobile nell’inganno di luglio
dove non bastano più i versi
a farci coraggio dopo le parole mediche
se l’anziana urla d’ansia, assediata
da una porta che si chiude a scatto
e da un codice rosso incollato alla lettiga Continua a leggere

Chiara Alessandra Piscitelli, da “Un bene palindromo”


Più neri di fuliggine gli occhi,
più piccoli di luce gli zigomi
lo sconosciuto che divide con me il passo
non è più chi un tempo diceva “Vai piano, non ti seguo”.
Ruba la mia ombra, non mi mostra la via.
Non di più vorrei, ma sempre,
in ogni buio essere la polvere che danza lenta l’aria,
non coprirti mai;
una sete sul fondo del bicchiere,
l’angolo bruciato di una mappa.
Non darmi geografie,
più di tutto vorrei sconosciuto il mondo.

*

Nella ruggine dell’alba guardavo in gola il mattino
vedevo camere esposte al sole
di qualche anno prima.
Il giorno era vissuto in corsa, un’attesa
delusa che non paventa il tempo.
Della tenerezza degli sciocchi era fatta la sera.
Ora, non forzando la memoria, non così
nemmeno al buio questa notte siamo uguali.

*

Stanza in Milano

Ti ho scritto una lettera mentale,
che a scriverle le parole diventano vere.
Le solite formalità, alcune novità
ma poi domande sulla partenza
per quel che si sa o che s’ignora,
sul verso giusto, se del passato coi suoi divieti
o del futuro con le sue rotonde.
E ancora ragioni, vantaggi della libertà,
cambiare città, via. Questo – è normale.
Se invece chiedi a un bambino, normale è quando si è felici.
E allora di nuovo schiavi, ancora e sempre
dei posti amati, dei polsi implorati
ché l’amore è mendicante
ché l’amore è penitente
e subito dopo un’intera vita al riparo
con unico desidero – lo schianto. Continua a leggere

Daniela Pericone, da “Distratte le mani”


Arrivo da uno sproposito
da crude frasi e voci
che tempo distingue e imploro
d’amore animale – adagio
di natura senza cifrari.
Perpetuo esercizio
di filatura a inseguire
la forma d’uovo più prossima,
o meno ostile, al pensiero
che la genera.
Mi inclino da un lato
a cogliere per minimi fulgori
come si traluce come
si vorrebbe. Arrivo da un quando
ch’è subito tardi – slabbro
dell’ora che tutto posa
in contorno.

*

Lo vedi il bagliore di lama
al fondo degli occhi
è la bestia acquattata
nel pozzo
l’amante dello zero,
pronta al balzo
ha un solo grido
uccidi uccide uccido,
lo copre la muta dei cani
la mutria eccitata
all’incerto della preda.

*

Eccola la torcia
che si dà fuoco
da sé a sé sola
s’abbruna
autocombusta
si ama e si divora
lecca lo sbavo
di fiamma in cruore
che non cola
e ancora ancora
s’alluma da sé sola
non considera
la cenere che l’incava
slarga la vampa
che la stura
in abbranco di sole
si disverna
disfama e si trasfuria.

da: “Distratte le mani”, Coup d’idée, 2017
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