L’imparzialità della poesia

“Dizionario critico della poesia italiana 1945-2020” a cura di Mario Fresa (Società Editrice Fiorentina, 2021). Il curatore l’ha definito in una recente intervista “uno stimolo alla conoscenza”.

NOTA CRITICA DI GIUSEPPE MARTELLA

Qualche tempo fa mi è capitato di pubblicare su Facebook in tono semiserio un post provocatorio dove affermavo di voler acquistare questo libro per vedere chi manca.

Mario Fresa non è intervenuto nel breve dibattito che ne è seguito, ma mi ha subito scritto, rimproverandomi la poca serietà dell’intento e invitandomi a leggere e studiare attentamente il volume piuttosto che semplicemente consultarlo, poiché dietro c’era un immenso lavoro di coordinamento e di riflessione da parte di una equipe di critici molto agguerrita. Io gli risposi che certo lo avrei fatto, facendogli notare però che dizionari, enciclopedie, atlanti ragionati e quant’altro, sono fatti proprio per essere consultati all’occorrenza piuttosto che studiati.

Quando ho iniziato a leggerlo, un paio di giorni fa, la dichiarazione di intenti che trovo fin dalle prime parole della Premessa, recita infatti: “questo dizionario intende essere uno strumento di consultazione, di memoria e di informazione.”

Poi cerco invano un indice dei poeti censiti per farmi una prima idea dell’impianto complessivo dell’opera, dal momento che nella stringatissima premessa (poco più una pagina) i criteri della scelta e l’intento dell’opera non vengono affatto esplicitati al di là delle generiche parole suddette, del criterio temporale di includere poeti che hanno esordito dopo il 1945, e delle affinità elettive fra questi ultimi e i critici cui sono stati affidati.

Si tratta dunque di una mappa ecumenica della poesia italiana dal dopoguerra ai nostri giorni, che annovera poco più di 250 poeti in ordine alfabetico, senza un indice di consultazione, e 53 redattori che invece l’indice ce l’hanno ma nell’ordine inconsueto dei nomi piuttosto che dei cognomi, di cui non comprendo lo scopo se non insinuando il sospetto maligno di confondere le acque, poiché poi buona parte di questi redattori appaiono anche nel novero dei poeti.

Questo è il quadro che il lettore medio può ricavare in partenza, in un’opera che manca del tutto di una cornice critica e di una spiegazione della ratio che la regge.

Non gli resta pertanto che mettersi pazientemente in cammino seguendo l’alfabeto degli eletti. E così faccio, ovviamente sorvolando sulla lettura di molte schede, per il semplice motivo che diversi autori già li conosco bene, altri abbastanza da non volerli approfondire oltre. Mi appunto solo alcuni nomi che mi riservo di esaminare a tempo e luogo e annoto alcune cose che mi colpiscono per lo più sfavorevolmente.

Anzitutto, l’eccessiva ampiezza del periodo scelto ha costretto i redattori a fare delle schede stringatissime, da cui spesso non risulta il tenore e il valore dell’opera prescelta. Sicché al lettore non specialista (tranne forse solo nel caso dei mostri sacri che magari conosceva già) non rimane che annoverare una serie di presenze fantasmatiche piuttosto che di profili nitidi.

In secondo luogo, nello spazio asfittico complessivo, alcune schede risultano a mio parere troppo estese ed altre troppo compresse rispetto al valore dell’autore in questione. Un esempio per tutti: Bartolo Cattafi ha una scheda di mezza paginetta mentre Biagio Cepollaro ne ha una di lunghezza doppia, quando fra i due sussiste un abisso di valore, dal momento che il primo è uno dei maggiori poeti del secondo Novecento.

Ad Alfredo De Palchi poi, encomiabile traduttore e divulgatore della poesia italiana in Nord America ma poeta assai mediocre, viene riservato uno spazio quattro volte maggiore. Continua a leggere

Carmelo Princiotta, “Dalla poesia mi aspetto una nuova musica relazionale”

Carmelo Princiotta, credits ph Dino Ignani

BISOGNA DI NUOVO IMPARARE A SCRIVERE?
DI CARMELO PRINCIOTTA

Non so come sarà la poesia dopo il Covid. Non so nemmeno come sarà la nostra vita. Che cosa davvero significherà questo dopo, se ci sarà un dopo inteso come discontinuità oppure no. So che la poesia è costellata di molti dopo, sia storici che letterari: dopo la guerra, dopo Auschwitz, dopo Montale, dopo i Novissimi, dopo il ’68. E che ogni poeta ha declinato il suo dopo nei modi più vari, vivendolo volta per volta come nostalgia, ebbrezza o esaurimento. La percezione di un dopo ha spesso autorizzato il ricorso a categorie come quelle di postumità e postremità, che in futuro verranno forse trattate così come noi oggi trattiamo per lo più le decadenze e i decadentismi, perché sappiamo quante cose terribili e straordinarie sarebbero venute dopo. Più di recente, all’insistenza sul dopo, spesso avvertito come cappa, ipoteca, impossibilità, si è sostituita, negli studi letterari, l’attenzione all’oltre, non necessariamente secondo la logica del superamento, ma certo in quella dell’oltrepassamento, o, se vogliamo, di un ricominciamento che abbia coscienza non della fine, ma di una fine, forse intermittente.

«Bisogna di nuovo imparare a vivere» recita un verso di Anna Achmatova che Biancamaria Frabotta ha inserito ne La materia prima, il libro inedito con cui si chiudeva nel 2018 il suo Tutte le poesie 1971-2017: La materia prima un’interrogazione acuminata e trepidante della senescenza, biologica, storica, cosmica, e insieme una ricognizione del fondamento ultimo del nostro stare al mondo, che oggi possiamo leggere come un libro profetico, per la sua insistenza sulle «cure primarie» (questo il titolo della prima sezione). La risorgenza e la penultimità si intrecciano in un continuo contrappunto, come Espero e Lucifero, il «pietoso pianeta» che segna sia la fine che l’inizio delle nostre giornate, con l’ambiguità che è tipica di Venere. Il contrappunto è la vitalità di una poesia cosciente della nostra ineluttabile (più che della propria eventuale) mortalità. Perché a Frabotta gli esseri umani interessano più delle poesie. E le poesie interessano per la loro relazione con l’umano. Questo è il punto del dopo-Covid. Continua a leggere

Umano scarto. La consapevolezza gnoseologica di Mario Benedetti


di Alberto Russo Previtali

La morte di un uomo, come ha insegnato Pasolini, è l’evento finale che ridispone a posteriori gli elementi della sua vita e li fissa in una storia. Nel caso di un poeta, dà una voce definitiva ai suoi versi. La morte di Mario Benedetti, il suo essere tra i fragili sommersi dall’onda invisibile dell’epidemia, è una fine che fa risuonare la sua voce poetica con una tagliente necessità. Nel tempo della catastrofe, che svela a livello planetario la precarietà radicale su cui è costruita ogni vita individuale e collettiva, muore un poeta che ha fatto dell’esplorazione ossessiva di quella precarietà il centro pulsante della sua opera. Per un gioco della storia, Benedetti, poeta dello spaesamento e dell’umano ricercato nell’“umiltà / delle cose minute” in un tempo votato all’efficienza e al calcolo, ritrova, nell’eccezione della catastrofe, una sua impellente giustezza. Ciò accade nel momento in cui sprofonda l’idea stessa di attualità abitualmente intesa, e nella narrazione del quotidiano s’impone una verità normalmente invisibile agli individui rapiti dalla loro vita in società, ridotti nel grande numero ad essere “una cosa, / tante cose animate, un testardo sentire obbligato”.

In diversi luoghi di Tersa morte il poeta mette il dito sulla distrazione degli uomini sprofondati nella loro inautentica quotidianità, nell’impersonalità di “prole serva di vita, superba” assorbita da un irriflesso “continuo affaccendarsi”. Nessun moralismo, nessuna retorica in questa critica che risuona come tale senza intenzione, poiché si dà come riscontro di uno sguardo postosi al di là del commercio delle cose del mondo. Ed è questa la sua forza, lo scaturire da una visione che si pone nell’imminenza di un al di là del presente, di un al di là della parola: “Futilmente presente è la parola, anche questo dire”. Continua a leggere

Marco Amendolara, “Il corpo e l’orto”

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Marco Amendolara è nato a Salerno nel 1968. Poeta, critico letterario e d’arte, traduttore di poesia latina. Laureato in Filosofia e in Lettere moderne, ha svolto un’intensa attività pubblicistica collaborando a vari periodici e quotidiani, fra i quali “Il giornale d’Italia”, “Il Mattino”, “Caffé Michelangiolo”, “L’area di Broca”, “Frontiera immaginifica”.

Nel 1984 pubblica il saggio sulla teoria della poesia “La musa meccanica”, (Ripostes, Salerno-Roma), con lo pseudonimo di Omar Dalmjró, testo riedito nel 1994 con minime varianti, aggiunte, omissioni, con Pellicanolibri, Roma.
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