Silvio Ramat, “Poesie da un esilio”

 

silvio_ramat-copertinaDalla quarta di copertina

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Un romanzo epistolare, condotto su un doppio registro: quello in versi del poeta che scrive per lunghi mesi da una casa di cura, e quello in prosa della dolce amica che gli risponde, Elisabetta, Elis, con cui il dialogo si infittisce tra ricordi, riflessioni, e il muoversi con discrezione estrema del sentimento. Così si realizza questo nuovo libro di Silvio Ramat, Elis Island, dove la corrispondente diviene un ideale punto di approdo, un’isola sognata verso cui il poeta apre lo sguardo. E lo riapre anche, o soprattutto, condividendo le sue emozioni con Elis, sui mille rivoli e i molti territori di un passato anche remoto, poiché “la memoria aduna / i luoghi del mondo visitati”. E infatti, lettera dopo lettera, si viene disegnando una geografia vastissima che va dalla Lombardia alla California da New York alla Cina o al lago di Garda, mentre in questo intenso scambio epistolare fra il poeta e l’amica letterata si affacciano i nomi e le opere di numerosi poeti e scrittori, come Stendhal o Virginia Woolf, come Carducci, Pascoli, Montale, magari intrecciati a ricordi di film celebri, come quelli di Hitchcock, o al suono di belle canzoni d’amore di un’epoca ormai lontana. Continua a leggere

Presentazione di “Lettere della Fine”

 

nadiaVenerdì 25 settembre 2015, alle ore 18.00, presso il Caffè Letterario Le Murate di Firenze,  incontro/dibattito su “Lettere della Fine”, di Nadia Agustoni,  nell’ambito del Festival Internazionale della Poesia “Voci lontane, voci sorelle” a cura del Laboratorio Nuova Buonarroti.

La poetessa dialogherà con il giornalista di La Repubblica Fabio Galati.
Presenta Elisa Biagini.

Ale 21,15 seguirà poi la lettura dei testi delle poesie alla Biblioteca delle Oblate.

Nadia Agustoni è nata nel 1964 a Bergamo dove vive. Scrive poesie e saggi dal 1994. Del 2015 è il libro Lettere della fine (Vydia editore) e del 2013 il libro-poemetto Il mondo nelle cose (LietoColle).

Per ulteriori informazioni: www.lemurate.it

 

 

Paola Ballerini, “dentro l’iride radici”

 

dentro-liride-radicila coltivazione delle parole
è questa terra che si spacca
quando la notte
crepita fino al bordo dell’alba
e ci assale
piegando i girasoli
durante la sepoltura dei semi
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Paola Ballerini vive e lavora a Firenze. Laureata in filosofia, ha compiuto studi anche in campo psicologico. Suoi testi sono apparsi nel 2008 sulla rivista Semicerchio. La raccolta Nell’arcipelago cresce l’isola ha vinto il premio ClanDestino 2009 per l’opera prima ed è stato pubblicata dall’editore Raffaelli. È coautrice insieme ad altri poeti del libro Varianti Urbane – mappa poetica di Firenze e dintorni che ha ottenuto il marchio microeditoria di qualità 2011, ed. Damocle. Alcuni suoi testi sono stati tradotti e pubblicati nel 2012 sulla rivista digitale serba Agon e nel 2013 sulla rivista digitale messicana Círculo de Poesía.

 

 

 

Giovanni Parrini, “Valichi”

 

IMMAGINE COPERTINA (1)Dalla nota introduttiva di Matteo Bianchi

Non poco è quanto ricevuto dai Valichi (Moretti&Vitali, 2015, pp. 84) di Giovanni Parrini, entrato nella terna finale del premio Viareggio-Rèpaci, assieme a Franco Buffoni (Jucci) e a Luigi Fontanella (L’adolescenza e la notte), vincendo il premio della Giuria.

Un Viareggio ancora una volta sorprendente, che ha visto partecipare alla tenzone penne del calibro, tra le altre, di Maria Grazia Calandrone, Aldo Nove, Umberto Fiori, Roberto Deidier;

tuttavia la contesa rimane aperta e si aspetta con trepidazione la nomina del supervincitore di questa ottantaseiesima edizione.

Valichi è il quarto libro di Parrini, poeta accompagnato, negli anni, da vari interventi critici, tra cui quelli puntuali di Maurizio Cucchi (prefazione a Tra segni e sogni, Manni 2006; selezione di testi per l’Almanacco dello Specchio 2010-2011; articoli su “Tuttolibri” e sulla rubrica “Dialoghi in versi” de La Stampa) e quello di Giovanna Ioli (prefazione a Nell’oltre delle cose, Interlinea, 2011).

«Non poco» è anche la particella chiave della raccolta. Un sintagma elementare, avveduto: due frammenti senza infingimenti che si fanno forza a vicenda, e introducono fin da subito la comprensione e la reciprocità della poesia, della letteratura. Perciò le liriche si susseguono una dopo l’altra in antitesi alle code di automobili che intasano le autostrade dei weekend, incuranti del valore esistenziale che dal tutto trattengono i particolari: «è il tramonto che presta ai fari il rosso / è il sole sghembo a fare con la polvere oro sopra i lunotti».

Alla maniera in cui si perdono (di vista) le storie degne di misericordia, come sosterrebbe Hugo, mentre seduti a tavola i fotogrammi fluviali della tv inghiottiscono le miserie che sarebbero da afferrare e fare proprie. Ecco e terribilmente, giunto «in ultimo il caffè», l’autore prende coscienza del peso interiore che assumono le immagini, specialmente nell’istante in cui valicano la condanna massificante del tempo.

Al centro, poi, si conficca la compassione d’incrociare a un semaforo lo sguardo di chi domanda, privandosi della dignità, qualche moneta per un pasto. Si badi bene, però, libero da drammaticità e da sentenze morali, specie nei confronti del sé allo specchietto retrovisore.

E le lacrime dantesche, o meglio, fiorentine – di stato e non di statuto – scaturiscono quando le parole non bastano più, non servono più, ma l’impotenza taciuta di redimere l’ingiustizia universale con un piccolo gesto si sfoga (mancando!) verso l’alto. Naturalmente, «vedi gli storni prendere le misure del cielo / con quella gratuità / che ti fa un nodo in gola di passione e di pena».

Anonima la grazia si rivela inaspettata: «Parrini – va detto – non giunge mai al momento epifanico, liberatorio; né mai è tentato da un discorso di ordine strettamente religioso: semplicemente cerca, ogni volta, il punto in cui  l’opacità del mondo sembra incrinarsi», ha motivato Giancarlo Pontiggia nella prefazione.

E il rispetto profondo con il quale l’autore si rivolge al prossimo, il garbo con cui ammonisce “un niente”, “il nulla”, ne costituisce la cifra distintiva, accurata ma necessariamente riflessiva da non indugiare sui formalismi, su superflui impedimenti comunicativi, «che tra poco uno a uno andiamo via alla spicciolata / una notte qualunque».

Il ritmo è totalmente privato e a tratti apprensivo, tanto da accelerare o ritardare al lettore l’illuminazione, a seconda dello stato d’animo vissuto, dell’ispirazione.

La limpidezza, delineata ne «l’azzurro contro il grigio», quindi serve a quietare la bufera dei ricordi, l’esperienza che allarga le palpebre. Magari per questo Pontiggia ha sostenuto «un’ascendenza montaliana», per la consapevolezza di essere una parte del tutto e neanche indispensabile al suo movimento.

Pianissimo come ha cominciato, e Sbarbaro docet nell’approccio antimelodico, l’ambivalenza amata e sofferta dei ricordi chiude il cerchio, quasi si trattasse di una panoramica scattata da un belvedere, ma oltre, di un tondo dipinto. D’altronde, «amari e magnifici giri» sono quelli intorno all’asse terrestre, «che la bellezza fa» non esaurendosi mai, rilkianamente quando «Né fanciullezza né futuro / vengono meno…» alle Elegie duinesi, che Parrini fissa in esergo al libro come un lasciapassare.

Paradossalmente sono i ricordi ad assicurargli una giustizia e l’inestinguibile desiderio di eterno, così all’opposto il presente brucia ogni cosa, perfino i fiori.

E dopo un «lunghissimo bacio» si congeda in bilico sullo stelo, senza bisogno che un aedo indori la realtà, men che meno depositata sul foglio, perché «Torneremo rifaremo percorsi di radici e pensieri / in una sola infinita stagione».

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