“Olimpia, tragedia del passaggio”

 

PREMESSA

di Luigia Sorrentino

 

Olimpia, Tragedia del passaggio (in scena al Napoli Teatro Festival Italia al Giardino Romantico di Palazzo Reale il 16 luglio 2020, h.22.30) trova la sua ragione più profonda nella distanza dell’uomo contemporaneo dal suo frammento divino.

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Questo primo testo scritto per il teatro, che riprende alcune sezioni di Olimpia (Interlinea 2013) si presenta con un altro titolo e un nuovo personaggio, Empedocle.

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Il tema centrale di Olimpia, tragedia del passaggio è il transito fra nascita e morte, un passaggio senza peso, privi di qualsiasi sostegno materiale: «Sempre di più, il morire. Fluttuando nella sostanza emotiva che preserva e cura, svanisce la memoria di ciò che siamo. La transizione nella morte da vivi, provoca spaesamento. In un grumo di forze distese, avviene lo smantellamento, lo spostamento, l’inversione. Ritorniamo arcaici, al servizio di ciò che siamo già stati.» (v. in Olimpia, “La discendenza” pag. 79, Interlinea, 2013-2019).

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Voltarsi indietro significa quindi, entrare in dialogo – nella contemporaneità – con l’elemento poetico universalmente umano che porta a toccare la divinità, il canto dell’infinito radicato nell’umano, che ha origine in antiche tradizioni preelleniche, oscure, ctonie. Il transito ci conduce, pertanto, all’origine del linguaggio, alla meraviglia di un mondo che rinasce in forma di parola. Continua a leggere

Giuseppe Martella, “Il declino della vita”

Giuseppe Martella

ARIA-AURA

DI GIUSEPPE MARTELLA

 

Facendo seguito a una serie di mie precedenti riflessioni[1] sullo statuto dell’aria nell’immaginario collettivo dall’antichità ai giorni nostri, e in particolare sul ruolo sussidiario che le è toccato nella storia dell’arte e del pensiero, per effetto della sua scontata abbondanza e affidabilità, intendo ora sviluppare sommariamente il nesso, apparentemente peregrino, fra il concetto comune dell’aria e quello filosofico dell’aura, elaborato da Walter Benjamin in un suo famoso saggio del 1936 a proposito dell’incidenza estetica e sociale della riproduzione tecnica di artefatti, e con particolare riferimento alla fotografia e al cinema, tecnologie d’avanguardia di quei tempi. In base all’elaborazione di questo nesso, abbozzerò infine una serie di ipotesi sulle opzioni pratiche e teoretiche che si delineano (o meglio, si precisano) dopo l’emergenza del coronavirus.

L’aria come si sa è la condizione generale per la sussistenza e lo sviluppo della stragrande maggioranza delle specie viventi sulla terra (esclusi gli organismi anaerobici, appunto, come i funghi e alcuni tipi di batteri). A tal proposito è anzitutto opportuno ricordare che il termine greco antico per designare l’anima individuale era psykhé, che significa “soffio vitale” e ha la stessa radice di aria. E’ lecito pertanto considerare l’anima come il principio di individuazione dell’aria. D’altra parte, per Benjamin, l’aura di una cosa costituisce la quint’essenza di tutto ciò che di essa si può tramandare, cioè il sigillo della sua singolarità storica. Nel caso sia di eventi sociali che di figure umane, come anche in quello di opere d’arte (per esempio un quadro d’autore), la riproducibilità tecnica (nelle forme allora egemoni della fotografia e del film), consentendo la moltiplicazione indefinita delle copie, produce secondo Benjamin la distruzione dell’aura dell’originale, ossia del suo valore di testimonianza e della sua intrinseca storicità. Come si vede, qui il concetto di “perdita dell’aura” riguarda tanto ciò che è animato quanto ciò che non lo è. In questa prospettiva, se l’anima è il principio di individuazione del vivente, si può ben dire che l’aura è il principio di individuazione di ciascuna cosa nel suo divenire storico. E’ possibile ipotizzare perciò l’equivalenza fra psiche umana e aura dell’artefatto, in quanto entrambe funzioni individualizzanti del sostrato universale dell’aria, che nel caso di oggetti ed eventi storici si manifesta nella figura dello Spirito (Geist), o Anima Mundi, in quanto sineddoche generalizzante dell’anima individuale. Vi è insomma un continuum biopsichico che lega le nozioni di aria e di spirito, da una parte, a quelle di anima e di respiro dall’altra.

Nel momento in cui la riproduzione tecnica, come oggi accade, ha pervaso in modo capillare l’ordine dei simboli e con la codifica digitale è in grado di simulare qualsiasi oggetto o processo, appare evidente che la tecnoscienza, sfortunatamente asservita agli interessi del grande capitale finanziario multinazionale, sia in grado di colonizzare senza residui tutti gli ecosistemi psicofisici, individuali e collettivi. Ma gli interessi del mercato e quelli dell’ambiente sono di recente entrati in definitiva rotta di collisione, sicché a mio parere in politica risultano oramai inadeguate le antiche distinzioni fra destra e sinistra, conservatori e progressisti, e tantopiù tutte le rivendicazioni di gruppi contrapposti quali uomini e donne, giovani e vecchi, stanziali e migranti, nord e sud, che fanno solo il gioco del grande capitale, catalizzando le tensioni sociali sul capro espiatorio di turno e sviando l’attenzione delle masse dalla reale posta in gioco. Credo infatti che nei prossimi decenni la battaglia decisiva si svolgerà fra liberismo (etico-economico) e ambientalismo, non senza intrecci più o meno espliciti fra questi due poli, e ciascuno di noi sarà chiamato a prendere posizione senza mezzi termini. Giunti a questo punto nel processo millenario di sfruttamento e dominio progressivo della natura da parte degli umani, si può infatti ragionevolmente ipotizzare, anche fuori di metafora, la possibilità della produzione di anticorpi da parte dell’ecosistema nei confronti del virus homo sapiens – operando una estensione ai regni vegetale e minerale del principio ambiguo della mimesi (simulazione-emulazione) che regge verosimilmente l’apprendimento e il comportamento di tutte le specie animali (René Girard, Konrad Lorenz) e delle loro funzioni organiche (neuroni specchio, ecc.). Fatta questa diagnosi necessariamente sommaria di una situazione molto complessa, abbozzo ora alcune ipotesi di lavoro da prendersi con beneficio di inventario o addirittura come semplici provocazioni. Continua a leggere

Respiro, biopoetica del Covid 19

ph. di Luigia Sorrentino

Penuria d’aria

di Giuseppe Martella

Da un paio di decenni a questa parte, sono gradualmente venute in voga negli Stati Uniti delle correnti critiche che vanno nel complesso sotto l’etichetta di biopoetica o darwinismo letterario. A parte la faziosità, il velato razzismo e l’eccesso di semplificazione che caratterizzano alcuni fra questi contributi, vi si trovano tuttavia diversi aspetti interessanti che si possono riassumere in una reazione salutare agli eccessi opposti del testualismo e del culturalismo registrati nei decenni precedenti, e soprattutto nella costante propensione a un dialogo costruttivo fra le due culture, umanistica e scientifica. Si sta cercando insomma di teorizzare un nuovo equilibrio tra i fattori naturali e quelli culturali nello sviluppo e nella selezione delle forme, dei generi e dei modi dell’invenzione letteraria e artistica, alla luce delle più recenti acquisizioni della biogenetica e della teoria dell’evoluzione, aprendo così lo storicismo classico agli orizzonti della preistoria. Sintetizzando drasticamente, si può affermare che l’obiettivo primario di questo approccio critico basato sulla biologia è quello di capire se l’attività artistica in generale può essere considerata tra i comportamenti che hanno dato un vantaggio evolutivo alla specie umana. Qui non è certo il caso di entrare in ulteriori dettagli, perciò faccio riferimento alle ottime, recenti sintesi di Michele Cometa sull’argomento[1].

Incrociando questo approccio biopoetico con gli importanti studi di metaforologia condotti intorno alla metà del Novecento da filosofi del calibro di Gaston Bachelard, Paul Ricoeur, Hans Blumenberg, Max Black ed altri, a me interessa soprattutto esplorare l’idea di una economia dell’immaginario e congetturarne le possibili mutazioni in una situazione di emergenza come quella attuale, dove la pressione dell’ambiente sul singolo si intensifica al punto di spostare le condizioni della selezione sociale verso quelle dell’esperimento eugenetico.

Nel quadro di riferimento qui sommariamente delineato, mi soffermerò in particolare sul topos della “penuria d’aria”, prendendo spunto da una antologia poetica appena uscita per i tipi di Samuele editore: Dal sottovuoto. Poesie assetate d’aria. Continua a leggere

Cristina Bove, “La simmetria del vuoto”

Cristina Bove

Il tratteggio: C. Bove, La simmetria del vuoto, Arcipelago Itaca, 2018.

Nota critica di Giuseppe Martella

Nella sua perspicua e illuminante prefazione, Anna Maria Curci propone la parola tedesca schweben, “fluttuare, stare in bilico, esser sospesi”, come chiave di lettura di questo testo e della intera poesia di Cristina Bove. Seguo questo suggerimento e aggiungo altri due termini, sempre di ambito tedesco: Ausdruck: “espressione, frase, detto” ma anche “sguardo e voce”. Da cui Ausdruckweise: “fraseggio”. E poi Abgrund: “abisso, pendio, precipizio, salto nel blu.” Etimologicamente “assenza di fondamento”. Filosoficamente, quest’ultimo termine indica infatti il fondamento nullo del nostro essere al mondo, tra realtà biologica e rappresentazione psicosociale: la terribile simmetria del vuoto. Tra fluttuazione e spro-fondamento dell’esserci si svolge infatti il fraseggio poetico di Cristina Bove.

Una triangolazione fra le costellazioni semantiche di Ausdruck, Schweben e Abgrund (espressione, bilico e abisso) può svelarci il luogo proprio e offrici l’orientamento di fondo della versificazione di Cristina Bove, cioè anche una cartografia del suo dire (Dichtung). C’è infatti nel termine Ausdruck (espressione, manifestazione, frase) un nesso fra sguardo e voce, assente nei suoi corrispettivi italiani, che implica quel cooperare nell’espressione poetica dell’occhio e della mano, che Walter Benjamin già indicava come la virtù precipua dell’antico cantastorie, il suo saper trarre da una tradizione condivisa le formule verbali e le alchimie del verso e della performance, il suo saper catturare e tenere avvinti gli ascoltatori nel giro della frase, nella reciprocità degli sguardi, nella cerchia dell’ascolto, che è la base di ogni circolo ermeneutico. Da qui parte la mia ipotesi: il dettato (Dichtung) di Cristina Bove sta sempre in bilico sull’abisso del proprio esserci. Una ipotesi che coniuga quell’esitazione fra suono e senso che Valery indica come carattere saliente della poesia, con la sua funzione primaria di testimonianza e terapia della finitudine e precarietà dell’essere al mondo insieme ad altri.

Una poesia della soglia, dunque, e del filo: liminale e sorvegliata. Filata sulla sottile ragnatela del carro della regina Maab (in Sogno di una notte di mezza estate) ma anche tessuta con la dedizione e la sapienza con cui Penelope tesse e disfa quella tela che è il sostrato comune del canto di tutti gli aedi dell’Odissea, Ulisse compreso. Una struttura flessibile, leggera e ferrea, come quella di un ponte d’acciaio teso sopra l’abisso. Quando indicherò nella maestria del fraseggio (Ausdruckweise) una sua virtù caratteristica, intenderò anzitutto questo convenire dello sguardo e della voce, questo accennare, nell’intervallo minimo fra pause e battute del verso, a un altrove, a quel fondo da cui emergono tutte le sue nitide figure, nel saper cogliere il tempo giusto (kairòs) perché la grazia (charis) della parola incarnata risulti efficace. Il dettato di Cristina Bove è danza graziosa sull’abisso che si intravede nella luminosa trama (nell’ultrasenso e nell’oltreluce) delle sue figure, nel chiaroscuro impeccabile, dei suoi versi.   Continua a leggere

Lo spazio del sacro, lo spazio del testo

NOTE PER UNA RILETTURA di OLIMPIA

di Giuseppe Martella 

  1. Fonti

A una prima lettura, Olimpia (Interlinea, 2013)[1] appare come un diamante: un’architettura splendida e tagliente, immersa nell’azzurro intenso di un cielo mediterraneo. Una creatura di luce: donna, città e dea. Nel corso della lettura, ti rimanda poi figure cangianti in cui ti rifletti ruotandole intorno, come in un assedio senza fine. Una città ben difesa da alti bastioni, sui cui spalti appaiono visioni elusive di larve e di donne, di colossi e di chimere. Una città fuori del tempo, certo, nuova e vecchia insieme, sfuggente visione nel bianco che ti acceca. Un’architettura più che umana che custodisce gelosa i segreti di un mondo e i possibili tempi della sua storia.

Forse per questo, il poemetto ha avuto parecchie, anche lodevoli, recensioni ma a quanto ne so nessun approfondimento critico vero e proprio. Ci si è fermati insomma al miraggio della città e alla superficie del testo. Eppure, nella sua breve e perspicua introduzione, Milo de Angelis ci aveva fornito alcuni validi indizi, se non addirittura le chiavi dell’interpretazione, quando parlava di “libro orfico”, “percorso iniziatico”, “sguardo lungimirante”, “tempo assoluto”, e di quella sensazione del lettore di essere “sempre sulla soglia di una scoperta cruciale”. Questi sono tutti attributi infatti che bene si confanno alla tradizione cui appartiene quest’opera: cioè a quella linea alta, visionaria e veggente, del simbolismo europeo, tra Otto e Novecento, che sfocia poi anche nei migliori esiti del modernismo, secondo traiettorie che vanno da Baudelaire a Rimbaud, da Mallarmé a Valery, in Francia; che in Gran Bretagna, sotto l’influsso congiunto dei classici (greci, latini, rinascimentali) e dei simbolisti francesi, generano le opere memorabili (nel contempo classiche e rivoluzionarie) di Ezra Pound, T.S. Eliot e dell’ultimo Yeats; e che infine in Germania annoverano tutta una schiera di validi poeti, nel lungo arco di tempo che porta da Hölderlin a Rilke, e fino a Paul Celan.

A questa linea appartiene il poemetto di Sorrentino, piuttosto che a quella musicale ed estetizzante che, a partire da Verlaine e attraverso Swinburne in Inghilterra, conduce dritto all’estetismo, al decadentismo e a D’annunzio qui da noi. L’unico poeta italiano che si può dire appartenga a pieno titolo alla linea visionaria di cui dicevo, è a mio avviso Dino Campana. E desta davvero meraviglia che i critici non abbiano osato chiamare in causa l’autore dei Canti Orfici nella lettura di un testo che è stato definito “orfico” nella sua prefazione. Campana è infatti un nume tutelare della poesia di Olimpia molto di più di quanto non lo sia lo Hölderlin evocato in epigrafe. Mi soffermerò perciò in particolare su questo debito, non certo per diminuire il valore della poesia di Sorrentino quanto piuttosto per inquadrarla meglio nel contesto del simbolismo italiano ed europeo, al quale credo fermamente appartenga, e per renderla pertanto più accessibile e significativa. Continua a leggere