Philippe Jaccottet, “Quegli ultimi rumori…”

Philippe Jaccottet

NOTA DI LETTURA DI LUIGIA SORRENTINO

Questo libro di Philippe Jaccottet pubblicato nel 2008 con Gallimard, esce  nel 2021 con Crocetti Editore a cura di Ida Merello e Albino Crovetto.

Un’opera eterogenea, nella quale visioni della natura, ricordi e sogni si accompagnano a citazioni di altri scrittori e poeti a lui vicini, che creano quello che potrebbe essere definito un mosaico testuale all’interno del quale diversi generi letterari si uniscono amalgamati dalla visione del poeta e lo rendono riconoscibile da un altro punto di vista.

L’attaccamento a sé aumenta l’opacità della vita. Un momento di vero oblio e tutti gli schermi, uno dietro l’altro, diventano trasparenti, di modo che noi vediamo la chiarezza fin nel profondo, tanto lontano quanto consente la vista; e insieme più nulla pesa. Così l’anima è davvero trasformata in uccello”.

Queste parole scritte da Jaccottet nel 1954 possono essere interpretate come il desiderio di superare l’ io poetico per eliminare la distanza da letture che portano oltre: Giacomo Leopardi, Peter Handke, Kafka, le poesie ritrovate di Ingeborg Bachmann, quelle del poeta polacco Premio Nobel per la letteratura Zbigniew Herbert e altri.

Le parole degli scrittori e i versi dei poeti citati che entrano nel mondo del poeta svizzero, rivelano a Jaccottet “l’istinto che permette alle cose di lasciarsi trasportare dolcemente nell’aria, verso l’alto”, per raggiungere la pienezza  in cui ogni confine è annullato.

Leggendo questo libro si entra in uno spazio fisico senza limite,  nel quale i vari materiali testuali interiorizzati delineano il ritratto culturale e emotivo del poeta Philippe Jaccottet.

Continua a leggere

Esecuzione dell’ultimo giorno

Lorenzo Chiuchiù

L’IRREVERSIBILE

Su Esecuzione dell’ultimo giorno di Lorenzo Chiuchiù

di Alessandro Bellasio

Da una parte, gli scrittori con la parola giusta per ogni occasione, sia essa lieta o funesta; dall’altra, gli scrittori con quelle e solo quelle, ineludibili parole – le parole del loro destino. Perché è del destino, è della frontalità irriducibile dell’esserci, che qui si tratta. Di un musicista, randagio e geniale, bersagliato dalla verità e dalle sue apparizioni saettanti, dedito anima e corpo alla realizzazione di un progetto devastatore e senza ritorno: comporre l’ultima sinfonia, la sinfonia dell’estremo, la partitura capace di intercettare la musica delle sfere e di piegarla a sé, evocando la fine del mondo. Questa (prendendoci licenza deittica) la vicenda al centro di Esecuzione dell’ultimo giorno, primo romanzo di Lorenzo Chiuchiù, nel quale avvertiamo tutta la potenza tellurica della sua poesia, ma qui votata a un respiro, a una orchestrazione che imbocca la via, a sua volta ultimativa e totalizzante, della letteratura assoluta. E per ottemperare a questo voto, Chiuchiù decide di seguire l’eco di una storia terribile e lontana, quella di Aleksandr Nikolaevič Skrjabin, pianista russo che ebbe l’intuizione di un’opera musicale capace di far divampare il cosmo, svellendone i cardini sonori. Da questa traccia prende ispirazione il racconto, che segue poi in realtà una direzione completamente autonoma, anzitutto tramutando Skrijabin in Viktor Semënov: il nome, carico di fatalità (nomina sunt numina), della piazza dove Dostoevskij, ormai certo della fine, venne graziato.


Ed ecco allora il problema: quale lingua convocare, che possa rendere giustizia alla scintilla e alla fiammata di un materiale tanto incandescente? Chiuchiù azzarda, e, come il suo Semënov, persegue la sola cosa che valga ancora la pena di perseguire, l’impossibile. O meglio: ne viene perseguito, perché si tratta di una scrittura dove, finalmente, non abbiamo l’impressione che chi prende parola si senta a casa propria, e che ci blandisca per farci accomodare: non vediamo disporsi davanti a noi il bel salotto di un repertorio autoriale, no, qui ci troviamo agli antipodi rispetto alla letteratura-prontuario – a quella forma di scrittura, subalterna e degradata, cui ci hanno abituati decenni di pubblicazioni votate all’immediatezza mortifera della trasparenza e della comunicabilità, che nella sua cifra significa poi reversibilità dei contenuti e permutabilità degli stili. Niente di tutto questo, e non per scelta, ma per forza di cose. Qui siamo in piena guerra, il lettore è travolto fin dalla prima riga, fin dal primo giro di frase, dalla furia del testo. Ma ciò accade perché è lo scrittore, lui per primo, ad essere stato sferzato, ad aver subìto la collisione frontale con quei nuclei psichici, con quelle potenze, e ad esserne stato polarizzato. Qui non ci sono coordinate, ambientazioni, nemmeno Perugia è davvero Perugia, bensì una città mnestica – siamo in territori siderali e inabitabili, siamo nell’irreversibile e vi sentiamo soffiare il vento gelido delle forze. Tutto è unico e conclusivo, è l’elementare a prendere parola e a dettarsi: chi scrive ha il compito di trasferirne nell’idioma lo scintillio e il brivido, sapendo che non vi sarà una seconda chance. Assistiamo così allo scatenarsi di una lingua fatta di accensioni e di torsioni, di illuminazioni ed estasi fulminee, dove ogni singolo atomo prosodico, ogni componente sintattica è agitata da tensioni estreme, proprio come quell’uomo, Viktor Semënov, di cui immortala tutta la furia, l’amore e il desiderio divorante. Continua a leggere

Le rive del sole di Ingeborg Bachmann

Ingeborg Bachmann

LE ONDE DEL DESTINO DI INGEBORG BACHMANN

commento e traduzione di alessandro bellasio

Tra le voci più alte e le esperienze più decisive della grande poesia europea del XX secolo, Ingeborg Bachmann (Klagenfurt, 1926 – Roma, 1973) ha saputo declinare in molteplici forme il suo talento letterario, dando vita non solo alle indimenticabili liriche di “Invocazione all’Orsa Maggiore“, ma anche a romanzi vibranti e tormentati come il celebre “Malina” (primo dell’incompiuto ciclo dei Todesarten, i “modi di morire”), così come a lucidi e accorati volumi di racconti (“Il trentesimo anno” e “Tre sentieri per il lago”), oltre che a drammi e saggi radiofonici, tra i quali ricordiamo “Il buon Dio di Manhattan”, o “Il dicibile e l’indicibile“, testimonianza quest’ultimo della profondità filosofica, oltre che critica, della ricerca perseguita dalla poetessa austriaca.
In “Herzzeit”, pubblicato in Italia con il titolo “Troviamo le parole”, è inoltre radunato il vorticoso, febbricitante scambio epistolare che la Bachmann intrattenne con Paul Celan – il grande poeta della Bucovina a un tempo amante, amico, confessore e sodale.

Proponiamo qui la poesia di apertura della raccolta “Die gestundete Zeit“ (Il tempo dilazionato), con la quale Bachmann esordì nel 1953, appena ventisettenne, sbalordendo pubblico e critica per la maturità e la perfezione del dettato. Continua a leggere

Hans Werner Henze/ Ingeborg Bachmann


Museo – Biblioteca – Foyer italo-tedesco
Via del Corso 18 | 00186 Roma (Piazza del Popolo)
www.casadigoethe.it

L E T T U R A e M U S I C A
In occasione della mostra Farbenlieder. Hans Werner Henze (1926-2012)

Venerdì 23 marzo 2018 – ore 19.00
(in lingua italiana)

Ingeborg Bachmann/Hans Werner Henze:
Lettere da un’amicizia
Prenotazione non obbligatoria

Continua a leggere

La follia dell’assoluto: Paul Celan e Ingeborg Bachmann

paul_igeborg

Ingeborg Bachmann e Paul Celan durante l’incontro del gruppo 47 a Niendorf nel 1952.

Giovedì 12 gennaio 2017 19:30 La Casa della Poesia di Milano al Laboratorio Formentini (Via Formentini , 10) PRESENTA: La follia dell’assoluto: Paul Celan e Ingeborg Bachmann, serata a cura di Milo De Angelis.

Voce recitante di Viviana Nicodemo.
Esecuzioni musicali di Bianca Brecce e Alice Marini. Continua a leggere