Claribel Alegría, “Amore senza fine”

L’Abisso (frammento)

M’invase un’onda di sonno
mi svegliai sul ciglio
di un abisso
troverò ancora
il mio vecchio mondo?
Sono lì
non sono lì?
E il mare
e la ceiba?
Il mare è uno spettro
ma lo sento
anche io sono uno spettro
e sto per scomparire.

Inclinai la testa
vidi nel fondo Dioniso
coronato d’alloro
piantava vigne
nelle crepe
e rideva
rideva
con la sua risata malevola
e sonora.
In fondo all’abisso
specchi rotti
centinaia di bacchi
centinaia
centinaia di claribel
nei pezzi di specchio
universi
inversi
multiversi
sentenze del destino
che mi legano
o sono io che lego il destino?
Esplorazione dell’io
che si trasforma
il sole non tramonta mai
e le stelle non smettono di brillare.
Sono il mare
sono la ceiba
i fiumi volanti
che atterrano in me
si rompono
si biforcano
diventano canto
e io canto le loro note.
Quale fra tutte le claribel
nei frammenti di specchio
è quella reale,
quella che non porta maschere
ed è coperta di rovi
e carboni ipnotici
che presagiscono incendi?
Non la conosco più
mi è scappata via.
La vertigine mi prende
galoppo all’indietro
in avanti
sono un ratto grigio
non posso fare il salto
non posso condividere
né il timore
né il dubbio
più ci amavamo
più eri lontano da me
torrenti che salgono e scendono
le mie preghiere
nascono già morte
sono il mio enigma
tu sei il mio mare
la mia ceiba
sei morto
sei vivo
cammino attanagliata
da angosce
cos’è il bene
cos’è il male?

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I territori estremi di Giancarlo Pontiggia

di Marco Marangoni

Mai come in questo libro (Il moto delle cose, Mondadori, 2017), Giancarlo Pontiggia si è inoltrato nella “perlustrazione” dei territori estremi a cui la poesia può dare accesso. Nelle precedenti raccolte abbiamo incontrato, ora un rito di invocazione della parola «remota» («Nomi e nati / io pongo i vostri confini qui, / lungo il corso dell’intero anno, / fin dove con suoni vi avrò chiamati», Con parole remote, Guanda, 1998), ora il momento in cui – col sopraggiungere dell’inquietante (Unheimliche) nei boschi della vita – la forza dei versi pareva capace di accompagnare la mente e illuminarla-screziarla con dolenti epifanie o «malinconici trofei»: «Il riflesso della luna / sulle rive algose di Poros, i cippi, / delle strade di Smirne, che contasti, / la notte, nello specchietto retrovisore, / la stirpe fuggente dei sogni / che il bimbo, avido, inseguiva, dove // siete?» (Bosco del tempo, Guanda, 2005).

Ora l’incontro si fa con il termine ultimo, l’abisso o l’origine. Si tende ad un incendio, a una deflagrazione: «fino all’estremo / conflagare di tutte // le cose» (p. 41). Ed è come se la parola avesse atteso destinalmente il poeta in una stazione in cui l’abbandono non è quello introduttivo alle muse, alla sapienza, alla tradizione. L’abbandono qui si volge all’estrema potenzialità della mitopoiesi. Al poeta non basta più invocare la voce, e farsi guidare da essa, seguirne l’indicazione. L’ascolto di sensi-suoni ora si combina con un senso dell’orizzonte finito che segna ogni esperienza possibile, e anzi proprio su quel limite di maturazione del vissuto, l’io lirico si aggetta dove “non sa”, eppure dove il linguaggio l’attende. C’è questo clima misto nell’ultimo libro, in cui tanto troviamo la fiducia nella forza nascente, quanto la pronunciata persuasione che la conoscenza del «moto delle cose» (lucreziano moto: alid ex alio reficit natura) si faccia in noi strada attraverso l’esperienza della caducità: «E t’immoti, nel tuo ultimo qui / come nel primo» (p. 31).

Proprio il seguire con lucidità e “passione” il franare di ogni umana/mondana cosa, sembra dunque portare (ecco l’enigma della bellezza) all’estremo della sua conquista, e della sua verità: la «cosa» pare, al limite tra l’essere che le è proprio e il suo annientamento (risonanza di un certo Sanguineti? con la sua ambigua e fertile Palus putredinis? E Pontiggia scrive: «il tempo della vita s’impaluda in anse / che non conosci», p. 111). Ne viene una poesia della fine e del cominciamento incessante, esprimibile con un dire orientato dalle matrici del desiderio e del “possibile”: «il concime / della vita, la sua pasta / opaca, nera, che lievita, lievita / dal fondo delle cose / che furono, dal niente / che ritorna /, dalla sua ombra / più lucente, / e si riveste / di un nuovo, fulgido / se stesso // niente che germina dal niente / stesso che genera se stesso» (pp. 65-66). Marco Vitale ha scritto di una «inclinazione alla catabasi»: quasi che venisse orchestrato «un basso continuo, lungo l’intera raccolta, risuonante di “s’infima, s’indedala, s’incavedia, s’invasa…”» («Cenobio», IV, ottobre-dicembre 2017). Ma questa catabasi, non si potrà davvero cogliere nella sua dinamica se non si riconosce in essa il suo intrinseco (empedocleo) contrappeso, di anabasi. E così il motivo semantico dell’intus, richiamato nel lessico di questo libro (indedala, incavedia, invasa ecc.), pare orientarsi da un lato verso una situazione-limite dell’io e del mondo, dall’altro verso un “principio di individuazione” e una rivisitazione dell’interior intimo meo («sentimento agostiniano»: cfr. Francesco Filia, in «Poetarum Silva», 9 ottobre 2017); un passaggio topico di tutto questo si ha, per esempio, nei versi: «vedi / ciò che sei, in te, dentro di te, ma non in te, in altro» (p. 125). Si ha l’impressione che il poeta ci conduca, con uno scavo, in un’intimità ontologica e linguistica, che tanto ci in-abissa quanto ci solleva al moto generante le cose. Tipico del linguaggio poetico, per Pontiggia, è infatti rendere «il senso tumultuoso, vitale, metamorfico e contraddittorio, della vita, così come si rivela, fin dal principio, al bimbo che si apre alle correnti ondose del mondo» («Gradiva», 53, Spring 2018). Tra l’altro questo assunto di una materia-mondo-lingua, così magmatica e vitalmente contradditoria, è quanto l’autore stesso afferma di incontrare nella pratica laboratoriale del suo scrivere: «ogni volta che [Il moto delle cose] mi pareva finito, qualcosa si ribellava al disegno che mi pareva di avere intravisto, e lo metteva in discussione. Mi ci sono insomma voluti dodici anni per giungere a una forma che mi convincesse» («QuiLibri», 44, novembre-dicembre 2017). Continua a leggere

“Il disegno pieno” della vita

di Eleonora Rimolo

Ciò che Domenico Cipriano intende ricercare, all’interno del percorso del suo nuovo libro, L’ origine, non è semplicemente il principio di tutte le cose: l’autore, infatti, sa perfettamente che questo è inconoscibile, irraggiungibile. È il primo testo ad indicarci una preliminare possibilità: “Io sono/tutte le terre che ho visitato […] e sono tanti i segni sul mio corpo”. È quindi nel proprio passato, nella ricostruzione dei luoghi e delle proprie esperienze emotive, che va cercato il senso originario; è à rebours che bisogna procedere per quella necessità spasmodica di ripercorrere le tappe di un viaggio antico, odissiaco, che ci condurrà infine ad “un intimo inizio” – come da titolo della prima sezione. Ogni tappa di questa ricerca tutta interiore ma nello stesso tempo completamente proiettata verso l’esterno e le sue “soste” (“cercando altre soste/oltre la memoria conosciuta/dove un’origine smarrita ci appartiene”) si rivela atto fondativo della poesia dell’autore, il quale nella sua estrema onestà e nella sua totale apertura verso l’Altro ci avverte che “assumiamo il profilo della terra incolta/se non ricominciamo”. Il poeta, che è anche e prima di tutto l’uomo che sente di dover fare un bilancio, di dover scavare fino alle proprie radici – come l’Ulisse de L’ultimo viaggio di Pascoli – viene attanagliato dall’angoscia di esserci stato fino a quel momento senza alcuna ragione determinata, dopo aver preso freddamente atto della propria piccolezza al cospetto dell’infinità del cosmo. E così i versi si avvicinano ai dettagli, li raccontano, li indagano, rimestando nella cenere dopo che le braci si sono consumate: “Un dettaglio marginale – sepolto o inaccessibile -/che compensa l’angoscia/la distanza sconfinata dalle stelle”. Continua a leggere

Olimpia, il ventre sacro del mito

Luigia Sorrentino ph. GIanni Rollin

di Bianca Sorrentino

Alcuni luoghi custodiscono in sé un senso del sacro che li eleva dalla loro natura terrena: non fa eccezione la città di Olimpia, che, per via del nome etimologicamente legato al monte sede degli dèi, non poté mai essere disgiunta dal suo ruolo di centro di culto, tanto che nell’immaginario collettivo essa continua a essere pervasa da un’aura di spiritualità profondissima, nella grazia delle sue rovine. La traccia di questo mistero attraversa le pagine di Olimpia, il poema con il quale Luigia Sorrentino si fa soglia e accoglie verità che arrivano da un tempo altro, dal tempo prima dei giorni.
Così, da una Grecia che incessantemente sprigiona la sua forza antica e nello stupore rivela la sua contemporaneità, questi versi cristallini proiettano il lettore su un sentiero che, da un antro oscuro, conduce al bagliore che inonda chi riesce ad approdare a un nuovo orizzonte: viaggio che è dunque iniziazione e, insieme, serena accettazione dell’insolubilità di certi interrogativi che, tormentando furiosamente l’uomo, finiscono per ancorarlo alla sua dimensione mortale. Una sensibilità viscerale – che è simbolo del Femminile – permette a Luigia Sorrentino di accarezzare le eterne questioni dell’umano; ma è la sua qualità di autrice che le consente di trascendere i temi su un piano più alto, nella ricerca di una lingua raffinata, inattuale, che al contempo risuoni nella sua naturalezza: le parole di Olimpia – donna e città, bianca e altissima – non ammettono repliche, sono figlie della poesia irrevocabile dei tragici greci, che come nessun altro seppero dar voce al mito.

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Eliot, le parole si muovono soltanto nel tempo

di Bianca Sorrentino

Tempo, eterna ossessione dell’uomo; inafferrabile, rivelatore, impietoso per chi fa i conti con la propria caduca, mortale esistenza. «Tempo» è anche la parola con cui T.S. Eliot sceglie di aprire i suoi Quattro quartetti, dopo aver dimostrato nel suo capolavoro, The Waste Land (1922), quanto la Poesia costituisca un fluire ininterrotto, rispetto al quale le contingenze hanno ben poco potere; con un approccio rivoluzionario, in un momento desolante sia per le vicende di portata epocale sia per alcune circostanze private, l’autore, novello rapsodo, aveva cucito tra loro versi provenienti da culture e secoli lontani, dando vita a un canto nuovo eppure ancestrale, un respiro all’unisono in cui la Filomela di Ovidio avrebbe potuto condividere con l’Ofelia shakespeariana il suo destino di vittima, un prodigio letterario per il quale Tiresia, l’indovino della classicità, avrebbe saputo parlare al Novecento in virtù di quella forza che accomuna il mito alla poesia, la capacità di trascendere i confini spazio-temporali.

Questa universalità, documentata empiricamente ne La terra desolata proprio attraverso l’applicazione del metodo mitico – in base al quale il mŷthos diviene cioè paradigma per il presente –, nei Four Quartets viene indagata attraverso una meditazione altissima e rarefatta. Le passeggiate nella campagna inglese, lontana dalla polvere sotto la quale giace la capitale in guerra, forniscono l’occasione al poeta per riflettere sul senso della memoria, della ciclicità, del concetto di principio che finisce per compenetrarsi con quello di fine. Non è raro che in questo cammino gli elementi del paesaggio siano figura dei moti dell’animo, segnato nel profondo e reso consapevole dallo scorrere del tempo: si tratta di versi frutto di un’età matura, per di più limati nel corso di sette, lunghi anni (1936-1942), durante i quali la strada è riuscita a levigare le asperità di certe visioni. Così, in uno slancio di rinnovata fiducia e riscoperto senso del sacro, gli occhi si posano su un’arcana primavera invernale, un palpito di vita che ancora resiste dentro i ghiacci.

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