Alexandre O’Neill e il surrealismo portoghese

Alexandre O’Neill

NOTA DI ELEONORA RIMOLO

In Portogallo i movimenti culturali europei si innestano con diversi anni di ritardo rispetto ai paesi in cui questi si originano: ciò accade anche con il surrealismo, movimento che in Portogallo attecchisce nel secondo dopoguerra (nel 1947) per necessità storica – numerose sono infatti le analogie con il primo dopoguerra francese, basti pensare al senso di insofferenza e di rigetto dei valori borghesi imposti, ma altrettante sono le novità di questo movimento, che assume tratti assolutamente inediti.

Purtroppo, il surrealismo portoghese non può esprimersi in una attività collettiva, di gruppo, ma si realizza a livello individuale a causa dell’assoluta mancanza di libertà dei singoli nonché della mancanza di un valido entroterra freudiano utile a sostenere le teorie letterarie surrealiste.

Il fascino del surrealismo portoghese sul Tabucchi narratore è connesso allo studio critico di Tabucchi sul movimento, che nel 1971 per Einaudi curò il volume La parola interdetta. Poeti surrealisti portoghesi.

Nell’introduzione al volume, il curatore sostiene che il sistema poetico surrealista portoghese si fonda sostanzialmente su quattro elementi: l’angoscia, lo scherno, l’immagine e l’impegno. Sono sentimenti che non si addicono ad una Avanguardia tout court, poiché la disillusione, il senso di resa e l’amarezza qui sostituiscono la forza sferzante e critica del surrealismo francese. Questo atteggiamento dipende dalla situazione politica portoghese di quegli anni: la caduta del fascismo italo-tedesco non ha prodotto la caduta del salazarismo, anzi ha permesso a quest’ultimo di rafforzarsi in via definitiva.

La poesia è impotente di fronte alle violente repressioni e alla costante vigilanza del regime, e non può che rifugiarsi in un sistema letterario pregno di ambiguità e di allusioni, di simboli che nascondono il nudo significato per poter sopravvivere, galleggiando in un oceano di compromessi con il regime – che lascia gli intellettuali “liberi” di esprimersi con doppi sensi, giochi di parole e critiche indirette e per questo li schiaccia definitivamente sotto il peso dei sensi di colpa e con la consapevolezza di essere la “cattiva coscienza” di quella borghesia tanto detestata ma profondamente incarnata, responsabile dello sfacelo del Paese.

Quali armi possiede dunque questo movimento, in apparenza così privo di forza, di baldanza? Continua a leggere

Yun Dong Ju, “Vento blu”

Yun Dong Ju (1917- 1945)

YUN DONG JU nasce il 30 dicembre 1917 a Longjing, nell’allora Manciuria, ora Cina settentrionale. Nel 1940 si laurea alla Yeonhui Techical School, che in seguito diventerà la Yonsei University.
Dopo la laurea si appresta a pubblicare una raccolta di diciannove poesie intitolata Cielo, vento, stelle e poesia, ma il professore al quale mostra la raccolta gli consiglia di rimandare la pubblicazione a un momento meno turbolento al fine di evitare la censura.
Nel 1942 si trasferisce in Giappone e e tra nel dipartimento di letteratura della Rikkyo University a Tokyo. Sei mesi dopo si sposta a Doshisha University a Kyoto.
Il 10 luglio viene arrestato per aver manifestato per l’indipendenza coreana. I suoi scritti vengono presi in esame e assunti come prove a suo carico. Il 31 marzo del 1944 Yun Dong Ju viene condannato dalla corte regionale di Kyoto a due anni di reclusione nel carcere di Fukuoka per aver violato la quinta legge sul mantenimento dell’ordine pubblico. La mattina del 16 febbraio 1945 Yun Dong Ju muore durante il periodo di reclusione.
Ancora oggi non sono chiare le cause della sua morte. Si pensa che nel carcere di Fukuoka dov’era recluso fossero stati messi in atto esperimenti medici sui detenuti.
Nel 1948 per interessamento dell’amico Chong Chiyong, al quale Yun Dong Ju aveva affidato alcune delle sue poesie scritte in Giappone, viene pubblicata postuma la raccolta di trentuno poesie Cielo, vento, stelle e poesia.

Questa edizione è a cura di Eleonora Manzi, ed è la prima traduzione in italiano dell’intera opera poetica conosciuta di Yung Dong Ju, (Ensemble editore, 2020).

PROLOGO

Spero di guardare il cielo fino al giorno della mia morte
senza provare la minima vergogna,
anche per il vento che agita le foglie
ho provato tormento.
Con il cuore che celebra le stelle
so che debbo amare tutto ciò che va incontro alla morte
e devo seguire ogni strada
che mi è stata assegnata.

Anche questa notte il vento graffia le stelle.

20 novembre 1941

 

AUTORITRATTO

Giro solitario ai piedi della montagna, vado verso un
[campo di riso dove trovo un pozzo abbandonato e
[guardo dentro.

Nel pozzo vedo la luna splendente, le nuvole che si
[addensano, il cielo vasto che si dilata, il vento blu e
[l’autunno.

Vedo anche un uomo.
Senza una ragione lo odio e mi allontano.

Mentre mi allontano provo pietà per lui. Torno
[indietro e l’uomo è ancora là dentro.

Di nuovo provo odio per lui e vado via.
Mentre mi allontano quell’uomo inizia a mancarmi.

Nel pozzo vedo la luna splendente, le nuvole
[addensate, il cielo vasto che si dilata, il vento blu,
[l’autunno e c’è un uomo simile a un ricordo.

Settembre 1939 Continua a leggere

Fabrizio Bajec, “Sogni e risvegli”

Fabrizio Bajec

NOTA DI LUIGIA SORRENTINO

Vi proponiamo da Sogni e risvegli, di Fabrizio Bajec (Amos Edizioni, 2021) il Poema della fame, quinta sezione del libro. Le poesie sono nate dalla rivolta dei gilet gialli in Francia. E’ l’unico a essere stato scritto in italiano. Le poesie delle altre sezioni sono testi composti in francese e tradotti dall’autore. L’azione-poesia di Bajec si configura in questo lavoro “come in un viaggio di andata e ritorno dall’abisso-corpo all’intelletto più luminoso.” Raccolta meno impegnata della precedente, La collaborazione, ma non meno impegnativa nella lettura. Fabrizio Bajec sta lavorando in prosa e in versi sulle lotte sociali in Francia di questi ultimi anni.

«(…) Se si toglie a un essere umano il potere
di agire e, ancor più, quello di creare,
cosa gli rimane oltre alla contemplazione?»
Aristotele

 

POEMA DELLA FAME

I.

solerti restarono in piedi
nella loro miseria belavano
contro la nebbia avvelenata
che il governo faceva piovere
sulle teste calde e canute
dei suoi sudditi ora insorti
dalle campagne e periferie
lungo le autostrade e rotatorie
riuniti intorno a un fuoco la notte
e il giorno sotto la neve
raccolti dentro una baracca
le capanne del loro Natale
ma che le ruspe dei gendarmi
spazzano insieme ai lunghi sforzi
poi tornano i recalcitranti
riedificano sempre una base
per quanto precaria e aperta
mai resistente a sufficienza
per traversare il gelido inverno
e accogliere nuovi affamati

nuova rabbia e braccia disponibili
ora trascinano ferraglia
nei viali delle città legna
macchine a qualsiasi prezzo
con ogni mezzo le barricate
si ergono tra la vita e la morte
la santissima morte cantata
da altri cittadini in rivolta
un tiro squarcia la mascella
polverizza l’occhio di un ragazzo
fora il seno di un’infermiera
che non ha mai perso un corteo
né un treno della dignità
per sputare sulla capitale
i suoi straordinari week-end
quanti storpi sfigurati orbi
sfileranno il sabato seguente
senza dire una parola
saranno visti con bende
e fasce sanguinanti eloquenti
volete decimarci o cosa?
noi che mangiamo una volta al giorno
piangiamo tra i debiti dormiamo
anche in macchina per lavoro
se non rende abbastanza per stare

dalla parte di chi grida al caos
chi recrimina i danni pubblici
e si chiede perché distruggiamo
perché domanda una principessa
con le scarpe da ginnastica
all star converse o adidas
perché mai prendersela col lusso
che non vi ha fatto nulla e brilla
in quartieri che non sono i vostri
come potete punire così
il commercio che in fondo è la vita
ne converrete sfama i piccoli
imprenditori come può darsi
tra voi si nascondano e sfasciano
tutto quello che non possiedono
al che risposero irati
venite dalle nostre parti
venga principessa e apra
il suo indispensabile negozio
poiché è dotata non chiuderà
e risero svergognandola
come fosse l’ultima cagna
di un villaggio fantasma accorsa
per un pasto che non s’è mai visto

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Marco Conti, “La mano scrive il suono”

Marco Conti

 

Sono uscito veloce
per un momento
lo specchio ha guardato il bianco
le pieghe della camicia.
Mi è piaciuto
non incontrare gli occhi
non sapere quanto tempo è passato.
Potevo scendere
scrollare la terra dai tacchi
ma ho saputo scappare
come una lucertola
sull’orlo verde delle cose.
Se chiudo gli occhi
sono in quello specchio,
gli alberi splendidi
il mattino quasi finito,
strappato a qualcosa
che non saprei dire.

*

Com’è rapida l’estate,
queste foglie replicano
camminano verso di me.
Fuori dalla stanza vuota
lasciano un’impronta
scendono verso il confine.
Le ombre ingialliscono
come limoni,
parlano di piccole cose.

*

Versando nell’acqua

Verso le otto sono sceso
a Les Saintes Maries,
il vento è venuto meno
e così l’odore degli anni
questa polvere invisibile
che ogni mattina
scopre il mio guanciale
mentre una luce diffonde
chissà quali memorie,
quali amori vissuti, mai vissuti
oggi comunque irreversibili.
Fuori la gente, le spiagge
il freddo alle giunture.
Pure sono gentile verso il futuro
e sogno continuamente
continuamente saluto
di qua dai recinti,
indeciso tra il lutto
o una leggerezza improvvisa,
fermo su queste dune
dove sostano due sconosciuti
con le labbra morbide
come fosse mezzanotte.
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Gabriele Borgna, “Manufatti del dissesto”

Gabriele Borgna credits foto Fratelli Bodart

Al bastione del Miradore
è ancora cielo sul falso pepe,
parla un fermo d’aria
che smarca la notte da dentro.

Come in una nassa
a bocca aperta,
fra le maglie delle cose
mi anniento.

Con le parole tratto di una resa.

*

Vivo nel garrito del desiderio,
vento che raschia i caruggi.
La mancanza è un esercizio
per corpi in attrazione,
recalcitranti ma già vinti
al giogo del dissesto.

*

C’è un tracciato che non dirocca
e rimanda a questi portici di calata
smangiati dalla spuma, alle lampare
in ronda, al tocco scardinante.

Ci siamo amati anzitempo
per ridare un nome alle cose,
la gola alla sete, un’espressione
d’assoluto al gesto della mano
che ora s’incurva e rassicura
nel seme di un chiarore primitivo.

*

Restano le conchiglie
come altari ai caduti
di tutte le derive.

L’eco dei muti splende
e tace oltre il male
marchiandoci.

da Manufatti del dissesto, Minerva Edizioni, 2021

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