Ruggero Cappuccio, al Mercadante presenta il suo ultimo romanzo

Palermo è un’isterica, ama solo la sua sofferenza, e quando riesce a goderne trasforma il dolore in arte.

Con questi pensieri Manfredi rivede dopo una lunga lontananza la sua Sicilia. Ha quarantatré anni ben portati, il gusto raffinato dell’antiquario, lo sguardo inafferrabile ed è tormentato e insieme nostalgico proprio come la sua città, dove rientra su richiesta dell’anziano e amato zio Rolando. Giorno dopo giorno, lo zio lo coinvolge nel racconto dei suoi ricordi, una vita appassionata che si intreccia alle ricerche della Natività di Caravaggio, rubata dall’oratorio di San Lorenzo nel 1969 e mai più rinvenuta.

Tra un capitolo e l’altro del mistero che si dispiega attorno a uno dei furti più eclatanti della storia, Manfredi deve affrontare anche i propri personali fantasmi che ha lasciato accovacciati tra i vicoli della bellissima e spietata città. Primo fra tutti l’amata Flavia, che lo abbandonò all’improvviso, inducendolo a prendere la decisione di lasciare l’isola. Mentre la relazione con lo zio Rolando si fa via via più profonda e carica di presagi, gli incontri con una bambina di strada fanno deragliare Manfredi verso un’inesplorata immagine di sé.

La voce di Ruggero Cappuccio si insinua tra le pagine a suggerire pause e cadenze di una sicilianità antica e preziosa, ci invita a passeggiare in una Palermo decadente che accoglie le insonnie notturne, il sapore degli amori finiti e canta la perdita umana, ma anche la vita che si rinnova e torna a chiamarci. Continua a leggere

Luigia Sorrentino, poesie

Luigia Sorrentino, gennaio 2020

nascosto nella tana dorme il bosco

le mani non sostengono più niente
piccole ossa, radici pietrose
di alberi accresciuti
dal seme oltre misura

l’eterno, la cosa compiuta
nella parola, appare in un coro

**

totale il sentiero della terra

la piccola forma della luce
è una fiamma,

innerva il collo
nel ritmo del torace

così dispiegata nel vento,
nello stesso petto discende

aderendo, siamo succo denso,
qualsiasi cosa, aperta e vuota

mostrata senza palmo
la sua essenza liberata
con la stessa devozione
del tradimento, di tutte le parole
si consuma l’intero universo

**

la massa del fiore
corolla di inesauribile accoglimento
urta il vento

incalcolabile il pianto, dai nudi
occhi scivola,
non è più sua
la piccola vita, si mette via

interrogata trema
fra i tronchi degli alberi

canta, così canta
tutta la notte adagiata Continua a leggere

Bellezza e Destino

Su Olimpia di Luigia Sorrentino

di Alessandro Bellasio

 

«Tutto sta nel sentire o non sentire miticamente». Questa fulminante intuizione nietzscheana potrebbe essere posta in epigrafe al «libro di una vita» (come scrive Milo De Angelis in prefazione) di Luigia Sorrentino. Perché Olimpia si colloca in effetti nel novero di quelle opere che fanno i conti con le grandi questioni del destino e dell’origine, della morte e del sacro, senza però cedere alla facile tentazione dell’elegia e di un sublime di maniera, di una retorica magniloquenza del verso. Tutt’altro. La sintassi fluida, la lingua priva di asperità, il tono fermo, lontanissimo da effusioni nostalgiche contraddistinguono questa lirica. Imbastita, come i lettori del libro già ben sanno, su uno scenario di memoria dichiaratamente hölderliniana (ma cruciale ci è sempre parsa anche la presenza di Rilke, specialmente quello dei Neue Gedichte), e che diventerà scena vera e propria il prossimo 16 luglio, quando al Giardino Romantico di Palazzo Reale a Napoli vedremo sfilare su un palcoscenico reale Iperione, Olimpia, Empedocle: le figure decisive di una Grecia arcaica, sfuggente e sibillina, ancora in bilico tra partecipazione cosmica e aggregazione politica, tra sentimento panico e stabilizzazione nel logos, una Grecia ancora immersa nella luce stellare dell’epica, e dove si combatte la guerra tremenda per l’assegnazione del limite, per la sanzione del confine tra umano e divino e il solo, imperdonabile peccato è quello della hybris. Di cui è figura emblematica non solo il titano Iperione, ma lo stesso Empedocle, figura leggendaria con la quale si cimentò, in un’opera celebre e incompiuta, il nume tutelare Hölderlin, ma che non mancò di attirare l’attenzione, in tempi più recenti, di un grande studioso come Giorgio Colli. Continua a leggere

Il dialogo fra Olimpia e Empedocle

Luigia Sorrentino

Intorno a Olimpia, tragedia del passaggio di Luigia Sorrentino

di Lorenzo Chiuchiù

Ho visto Empedocle ai giochi d’Olimpia,
in gara sopra un cocchio.

F. Hölderlin

Empedocle

Ho impiegato anni a costruire il ponte
ho affondato le sue radici nell’acqua
senza il timore di profanarla.

Olimpia

Tu esisti qui
io sono in questa pietra
la forma terrena, vicino a te – 

I quattro movimenti di Olimpia, tragedia del passaggio rimandano agli elementi di Empedocle: l’antro, il lago, Iperione e Empedocle sono rispettivamente la terra, l’acqua, l’aria (Iperione è figlio di Urano, la sua genesi è legata al cielo) e il fuoco (fuoco dell’Etna dove il sapiente si getta).

Nucleo drammatico e redde rationem, il quarto movimento, che retroillumina i precedenti, è il dialogo fra Olimpia e Empedocle dove si risale alla colpa di Empedocle. Perché Olimpia, certo, è anche la morte ma è morte espiatoria. E Luigia Sorrentino immagina la colpa di Empedocle, il contenuto della sua hybris: Empedocle avrebbe tentato di costruire il ponte tra Occidente e Oriente. Colpa è forse più aver tentato che aver fallito, vedendolo rovinare. Anche di Parmenide e di Platone si sospetta del debito che avrebbero contratto con l’Oriente: l’essere inconcusso e il sentiero delle illusioni che i mortali chiamano mondo, l’incorruttibilità dell’idea el’impermanenza della realtà, il tempo come dispersione e come immagine mobile dell’eterno.

Eterogenesi dei fini: la congiunzione fra Oriente e Occidente, la sapienza che ne scaturisce, revoca in dubbio la possibilità stessa del ponte, l’idea di ogni ponte: l’Oriente mostra all’Occidente sbigottito che all’essere compete solo un luogo segreto e inaccessibile, che l’immortale, la sostanza dei mondi, è inattingibile agli umani. Il ponte di Empedocle è il suo proprio crollo: e questa è la colpa del sapiente, credere che l’eterno e l’immortale possano darsi tangibilmente nell’individuo, che possano, come per l’Empedocle di Hölderlin, «conciliarsi intimamente diventando unità».

È Olimpia a mostrare che di quelle realtà non si dà conciliazione, ma ritmo:«Questo fu Olimpia per sempre: l’ombra e il traguardo, il supremo esporsi e il più profondo ritrarsi, il pendolo perfetto» (Roberto Calasso).

Empedocle è la logica applicata agli elementi del mondo; Olimpia il senso del loro ritmo. Sembra che le tragedie fossero accompagnate da melodie costruite sul modo frigio – un modo minore e oscuro eseguito su ritmi ternari (il blues, sebbene si fondi su un modo differente, è l’analogo più vicino). In questo senso musicale Olimpia è il controcanto di Empedocle, indica un medesimo sfondo ma inserendolo in un ritmoed è una differenza capitale: Empedocle crede nell’unità e il suo destino è renderla presente: eternarsi o mostrarne l’impossibilità, Dio o suicida. La conclusione di Olimpia, tragedia del passaggio vuol essere invece il ritorno ad un altro tipo di sapienza: Olimpia sa – ed è una sapienza irriflessa e animale – che la physis è il suo proprio rimo e che i mortali sono cadenze, accelerazioni e inflessioni; né dèi suicidi, non fiamme straziate in cerca dell’impossibile unità, gli uomini sono successioni ritmiche del to Zoon, del Vivente. Continua a leggere

L’orizzonte del tragico

Luigia Sorrentino

Nota critica di Giuseppe Martella

Fatto salvo il suo valore poetico intrinseco, il testo “Olimpia, Tragedia del passaggio” di Luigia Sorrentino (in scena al Napoli Teatro Festival Italia, direzione artistica di Ruggero Cappuccio, il 16 luglio h.22.30, Giardino Romantico di Palazzo Reale, a Napoli)  ha tutte le valenze proprie di una sceneggiatura rituale, come per esempio La sagra della primavera di Stravinsky, di per sé musica memorabile che tuttavia si compie appieno nelle movenze del balletto omonimo. Alla sola lettura, Olimpia (Interlinea, 2013, 2019), sembra infatti quasi opporre resistenza come un diamante: un’architettura splendida e tagliente, immersa nell’azzurro intenso di un cielo mediterraneo. Una creatura di luce: donna, città e dea. Nel corso del testo, ti rimanda poi figure cangianti in cui ti rifletti ruotandovi intorno, come in un assedio senza fine. Una città-tempio ben difesa da alti bastioni, sui cui spalti appaiono visioni elusive di larve e di donne, di colossi e di chimere. Una città fuori del tempo, certo, nuova e vecchia insieme, sfuggente visione nel bianco che ti acceca.

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Un’architettura più che umana che custodisce gelosa i segreti di un mondo e i possibili tempi della sua storia. Il testo appartiene alla linea alta, visionaria e veggente, del simbolismo europeo (tra Otto e Novecento, da Rimbaud a Valery, da Hölderlin a Rilke, e fino a Paul Celan), condensata al massimo in un intreccio archetipico che ha già di per sé movenze da tragedia greca, dal momento che i ruoli degli attori e del coro si fondono in una dimensione estatica, impersonale e sembrano obbedire ai dettami di un fato occulto tanto più quanto ci sembra di essere “sempre sulla soglia di una scoperta cruciale” (Milo De Angelis) e quanto più la scena sembra annegare in un tripudio di luce (il dominio del colore bianco assume qui infatti la doppia connotazione della purezza e del lutto).

Strutturalmente si tratta infatti di un dramma pronominale dove la permutazione delle tre persone (io, tu, lei) avviene con cadenze cerimoniali che distribuiscono il dentro e il fuori ad ogni cambio di scena. Lasciando poi che siano gli spettatori (lettori) ad assegnare le sfere dell’immaginario, del simbolico e del reale in questo percorso iniziatico che coniuga le due facce del mito greco, essoterica ed esoterica, la luce di Olimpia e l’ombra di Eleusi, proiettandole verso l’irrisolvibile ambiguità del tragico. Nel complesso il testo organizza i suoi spazi semantici proiettandoli sulla mappa dei luoghi della città sacra, sicché l’intreccio che ne risulta è letteralmente una serie di superamenti di soglia o di riti di passaggio, per cui la costruzione e la visita di questa città di parole alla fine coincidono. L’architettura e l’archeologia si sovrappongono in modo tale che quando si è giunti alla fine del percorso si viene rinviati all’inizio e la città nuova lascia intravedere in sé lo scheletro di quella vecchia, l’insieme di detriti e di rovine che costituiscono le sue fondamenta. Torniamo così nella grotta dell’inizio, nel ventre della terra madre da cui siamo usciti, chiudendo una specie di cerchio magico di cui l’immagine del lago, che si trova al centro del poema, costituisce il fuoco virtuale della riflessione, l’occhio immoto del ciclone, la sua soglia simbolica interna: il luogo del possibile sprofondamento del volto che ci manca, la “lei che è lì” dall’inizio, l’oggetto del desiderio e dell’adorazione, della ricerca e del canto, l’Euridice di Orfeo, l’ombra amata che può ad ogni istante sprofondare “a un passo da noi”. Perché qui si tratta di una iniziazione che è nel contempo esistenziale e poetica. Ed è a questo punto che, in Olimpia, all’io poetico come allo spettatore, viene incontro “il traguardo dell’ombra” (39), la porta liquida che gli può consentire di scendere nell’immemoriale inconscio per trarne fuori immagini mirabili, oppure al contrario condannarlo a sprofondare insieme ad esse in un vortice allucinatorio, nel labirinto di specchi e nella foresta di simboli che pure deve necessariamente costruire e attraversare. La struttura del testo di Olimpia, pure nella descrizione sommaria che si è data, ci rimanda dunque imperiosamente a quell’orizzonte mitico in cui soltanto quest’opera può davvero essere vissuta e compresa.

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