Una poesia di Milo De Angelis

NEMINI

Sali sul tram numero quattordici e sei destinato a scendere
in un tempo che hai misurato mille volte
ma non conosci veramente,
osservi in alto lo scorrere dei fili e in basso l’asfalto bagnato,
l’asfalto che riceve la pioggia e chiama dal profondo,
ci raccoglie in un respiro che non è di questa terra, e tu allora
guardi l’orologio, saluti il guidatore. Tutto è come sempre
ma non è di questa terra e con il palmo della mano
pulisci il vetro dal vapore, scruti gli spettri che corrono
sulle rotaie e quando sorridi a lei vestita di amaranto
che scende in fretta i due scalini, fai con la mano un gesto
che sembrava un saluto ma è un addio.

(da Linea intera, linea spezzata di prossima pubblicazione da Mondadori) Continua a leggere

Tiziana Sola, “L’umanità al crepuscolo”

Tiziana Sola

DOPO IL CORONAVIRUS:
RIFLESSIONI PSICOANALITICHE TRA MICROCOSMI UMANI E MACROCOSMO AMBIENTALE

DI TIZIANA SOLA

Quello che c’è di fuori, lo sappiamo soltanto
dal viso animale; perché noi, un tenero
bambino già lo si 
volge, lo si costringe a
riguardare indietro e vedere
figurazioni soltanto e non l’aperto ch’è sì
profondo nel volto delle bestie. Libero
da morte…

Rainer Maria Rilke, Elegie duinesi, Ottava Elegia

 

È il crepuscolo di una Pasquetta insolita. Insolita perché la libertà di restare a casa è condizionata dall’intimazione a non muoversi. Intimazione legittimata dalle esigenze di una pandemia che in poche settimane ha rivoluzionato la nostra vita. La sua imprevedibilità ha scardinato i nostri ritmi, la sua forza contaminante limitato i nostri movimenti. Il SARS-CoV-2 è piombato come un’onda anomala sull’ordine delle nostre esistenze, inducendoci a rinchiuderci, a sconvolgere consuetudini fino ad un mese fa acquisite come certezze inconfutabili. Il suo impatto traumatico ha risvegliato in noi paure primitive e diffidenze verso gli altri, abolito ogni visione o proiezione futura, obbligandoci ad un lavoro mentale per ricercare un altro ordine, un altro senso delle cose”.

Scrivevo così più di un mese fa, nella quiete del mio studio, in pieno periodo di confinamento, sullo sfondo di una splendida primavera, che grata del silenzio umano, pareva libera di esibire i suoi fruscii e cinguettii. In quella sorta di vuoto e di allentamento temporale in cui tutti eravamo immersi, cercavo nella scrittura un modo per pensare e metabolizzare il magma di emozioni che invadeva i miei pensieri, un misto di spaesamento e di interrogativa curiosità, di leggera euforia, quasi a “non voler perdere, come dice Paolo Giordano nel suo Nel contagio (2020) ciò che l’epidemia ci sta svelando di noi stessi”.

Il SARS-CoV-2 ha sovvertito l’ordine delle nostre vite e minacciato le evidenze della scienza. Ora siamo al dopo, mentre il mondo si rimette in moto. La riacquistata libertà, per tanti il segno del ritorno ad un’agognata normalità, comporta il rischio che il grave carico luttuoso che la pandemia ha generato, si perda in una sorta di “fuga nella guarigione”, privandoci della possibilità di intraprendere un nuovo necessario percorso.

La crisi pandemica si innesta invero in una contemporaneità già attraversata da mutamenti radicali che impattano, in senso antropologico e psicopatologico, sulla visione identitaria dell’uomo e dei suoi rapporti con il proprio ambiente. Da vari anni la riflessione psicoanalitica si è concentrata su tali cambiamenti, generati dalle “storture” di un mondo globalizzato e tecnologizzato, tanto da accelerare le trasformazioni della nostra condizione umana e generare quelli che in tanti definiscono i “nuovi disagi della civiltà”, con riferimento alla celeberrima opera eponima di Freud del 1929. Nel tentativo di sondare il senso delle nuove declinazioni della sofferenza mentale, fondate prevalentemente sullo sfaldamento della struttura identitaria-narcisistica con conseguenti modificazioni della funzione dell’Io e dei suoi rapporti con l’intrapsichico e l’inter-psichico, la psicoanalisi si è impegnata non solo a riesaminare alcuni paradigmi fondamentali, come l’inconscio, il conflitto edipico, il Super-Io, “sbiaditi” se non vanificati nella loro funzione strutturante, dalla esasperazione della modernità (Recalcati 2010 ; Borrelli e Al. 2013), ma anche ad interrogarsi se tali mutamenti realizzino la rottura di forme anteriori di socializzazione. Rottura che si ripercuote in un nuovo stato di legame sociale contrassegnato dal rischio, supposto, della caduta in una nuova barbarie e di una società contrassegnata dal male assoluto (Richard 2011; Bourdin 2013). Sono interrogativi che rimettono in questione i rapporti tra il fondo primitivo della psiche, ovvero la costituzione biologica della specie umana, e le capacità sublimatrici e civilizzatrici dell’uomo. Continua a leggere

Umberto Piersanti, “Una strana primavera”

Umberto Piersanti credits ph. Dino Ignani

UNA STRANA PRIMAVERA
DI UMBERTO PIERSANTI

tra febbraio e marzo il bruno accende
col suo bianco squillante
i greppi e i fossi,
dalle lunghe Cesane
al Petralata,
e tutt’attorno nascono
i prugnòli,
il solo fungo della primavera,
lo si mette in padella
con l’aglio e l’olio
e la terra non da
erba più buona

attorno al pruno
le streghe fanno i cerchi,
cerchi di sortilegi
inqueti e strani

oggi i cerchi s’alllargano
dovunque,
giungono fino al mare
salgono i monti,
dalle fessure dei muri
e delle porte
entrano nelle case
degli umani

primavera crudele che s’inoltra
col suo riso sinistro
di cieli e campi,
di fiori,
d’acque azzurre
e venti lievi

da dietro le finestre
e stretti ai muri,
del sortilegio
s’attende la fine,
guardare un’erba
o un fiore
senza il male nascosto
dentro i colori Continua a leggere

Carmelo Princiotta, “Dalla poesia mi aspetto una nuova musica relazionale”

Carmelo Princiotta, credits ph Dino Ignani

BISOGNA DI NUOVO IMPARARE A SCRIVERE?
DI CARMELO PRINCIOTTA

Non so come sarà la poesia dopo il Covid. Non so nemmeno come sarà la nostra vita. Che cosa davvero significherà questo dopo, se ci sarà un dopo inteso come discontinuità oppure no. So che la poesia è costellata di molti dopo, sia storici che letterari: dopo la guerra, dopo Auschwitz, dopo Montale, dopo i Novissimi, dopo il ’68. E che ogni poeta ha declinato il suo dopo nei modi più vari, vivendolo volta per volta come nostalgia, ebbrezza o esaurimento. La percezione di un dopo ha spesso autorizzato il ricorso a categorie come quelle di postumità e postremità, che in futuro verranno forse trattate così come noi oggi trattiamo per lo più le decadenze e i decadentismi, perché sappiamo quante cose terribili e straordinarie sarebbero venute dopo. Più di recente, all’insistenza sul dopo, spesso avvertito come cappa, ipoteca, impossibilità, si è sostituita, negli studi letterari, l’attenzione all’oltre, non necessariamente secondo la logica del superamento, ma certo in quella dell’oltrepassamento, o, se vogliamo, di un ricominciamento che abbia coscienza non della fine, ma di una fine, forse intermittente.

«Bisogna di nuovo imparare a vivere» recita un verso di Anna Achmatova che Biancamaria Frabotta ha inserito ne La materia prima, il libro inedito con cui si chiudeva nel 2018 il suo Tutte le poesie 1971-2017: La materia prima un’interrogazione acuminata e trepidante della senescenza, biologica, storica, cosmica, e insieme una ricognizione del fondamento ultimo del nostro stare al mondo, che oggi possiamo leggere come un libro profetico, per la sua insistenza sulle «cure primarie» (questo il titolo della prima sezione). La risorgenza e la penultimità si intrecciano in un continuo contrappunto, come Espero e Lucifero, il «pietoso pianeta» che segna sia la fine che l’inizio delle nostre giornate, con l’ambiguità che è tipica di Venere. Il contrappunto è la vitalità di una poesia cosciente della nostra ineluttabile (più che della propria eventuale) mortalità. Perché a Frabotta gli esseri umani interessano più delle poesie. E le poesie interessano per la loro relazione con l’umano. Questo è il punto del dopo-Covid. Continua a leggere

Kathleen Jamie, “Accettare l’albero”

Kathleen Jamie

ALBERO SULLA COLLINA
KATHLEEN  JAMIE

C’era una volta una collina su cui cresceva un albero. Nel corso del tempo il vento l’aveva talmente assottigliato che, come un apostolo in un dipinto, sembrava allargare le braccia in un ampio gesto verso una gloria più grande, in questo caso il paesaggio sottostante.

A questo albero ti potevi appoggiare e osservare il fiume che diventava un fiordo, che si allargava per miglia e miglia mentre si preparava a incontrare il mare. Potevi osservarlo mentre si portava via non solo la pioggia invernale – addio! addio! ma tutto ciò che era necessario perdere.

E di quello ce n’era in abbondanza, ma sembrava che l’albero insistesse su qualcosa ancora più in là: oltre il ‘Braes of the Carse’ e le turbine eoliche, perfino oltre le montagne – un raggio di – cosa?

Beh, questo può funzionare in un modo o nell’altro. Potremmo restare quaggiù e sostenere che non è esistito né l’albero né, sicuramente, la distante consolazione. O forse accettare l’albero, un larice, essendo i larici tra gli oggetti di questa Terra. Ma la premonizione – no.

Concesso l’albero, tuttavia, chi può dirlo? Per quel che ne sappiamo potrebbe essere ancora là, un albero solo sulla collina. E se non un albero, allora una celidonia, che si ridesta al giallo. O una pietra che sprofonda. O il canto di un’allodola. O una lepre con i suoi occhi di mondo, in ascolto.

24/03/20

Traduzione di Giorgia Sensi
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