Umberto Piersanti, “Una strana primavera”

Umberto Piersanti credits ph. Dino Ignani

UNA STRANA PRIMAVERA
DI UMBERTO PIERSANTI

tra febbraio e marzo il bruno accende
col suo bianco squillante
i greppi e i fossi,
dalle lunghe Cesane
al Petralata,
e tutt’attorno nascono
i prugnòli,
il solo fungo della primavera,
lo si mette in padella
con l’aglio e l’olio
e la terra non da
erba più buona

attorno al pruno
le streghe fanno i cerchi,
cerchi di sortilegi
inqueti e strani

oggi i cerchi s’alllargano
dovunque,
giungono fino al mare
salgono i monti,
dalle fessure dei muri
e delle porte
entrano nelle case
degli umani

primavera crudele che s’inoltra
col suo riso sinistro
di cieli e campi,
di fiori,
d’acque azzurre
e venti lievi

da dietro le finestre
e stretti ai muri,
del sortilegio
s’attende la fine,
guardare un’erba
o un fiore
senza il male nascosto
dentro i colori Continua a leggere

Carmelo Princiotta, “Dalla poesia mi aspetto una nuova musica relazionale”

Carmelo Princiotta, credits ph Dino Ignani

BISOGNA DI NUOVO IMPARARE A SCRIVERE?
DI CARMELO PRINCIOTTA

Non so come sarà la poesia dopo il Covid. Non so nemmeno come sarà la nostra vita. Che cosa davvero significherà questo dopo, se ci sarà un dopo inteso come discontinuità oppure no. So che la poesia è costellata di molti dopo, sia storici che letterari: dopo la guerra, dopo Auschwitz, dopo Montale, dopo i Novissimi, dopo il ’68. E che ogni poeta ha declinato il suo dopo nei modi più vari, vivendolo volta per volta come nostalgia, ebbrezza o esaurimento. La percezione di un dopo ha spesso autorizzato il ricorso a categorie come quelle di postumità e postremità, che in futuro verranno forse trattate così come noi oggi trattiamo per lo più le decadenze e i decadentismi, perché sappiamo quante cose terribili e straordinarie sarebbero venute dopo. Più di recente, all’insistenza sul dopo, spesso avvertito come cappa, ipoteca, impossibilità, si è sostituita, negli studi letterari, l’attenzione all’oltre, non necessariamente secondo la logica del superamento, ma certo in quella dell’oltrepassamento, o, se vogliamo, di un ricominciamento che abbia coscienza non della fine, ma di una fine, forse intermittente.

«Bisogna di nuovo imparare a vivere» recita un verso di Anna Achmatova che Biancamaria Frabotta ha inserito ne La materia prima, il libro inedito con cui si chiudeva nel 2018 il suo Tutte le poesie 1971-2017: La materia prima un’interrogazione acuminata e trepidante della senescenza, biologica, storica, cosmica, e insieme una ricognizione del fondamento ultimo del nostro stare al mondo, che oggi possiamo leggere come un libro profetico, per la sua insistenza sulle «cure primarie» (questo il titolo della prima sezione). La risorgenza e la penultimità si intrecciano in un continuo contrappunto, come Espero e Lucifero, il «pietoso pianeta» che segna sia la fine che l’inizio delle nostre giornate, con l’ambiguità che è tipica di Venere. Il contrappunto è la vitalità di una poesia cosciente della nostra ineluttabile (più che della propria eventuale) mortalità. Perché a Frabotta gli esseri umani interessano più delle poesie. E le poesie interessano per la loro relazione con l’umano. Questo è il punto del dopo-Covid. Continua a leggere

Kathleen Jamie, “Accettare l’albero”

Kathleen Jamie

ALBERO SULLA COLLINA
KATHLEEN  JAMIE

C’era una volta una collina su cui cresceva un albero. Nel corso del tempo il vento l’aveva talmente assottigliato che, come un apostolo in un dipinto, sembrava allargare le braccia in un ampio gesto verso una gloria più grande, in questo caso il paesaggio sottostante.

A questo albero ti potevi appoggiare e osservare il fiume che diventava un fiordo, che si allargava per miglia e miglia mentre si preparava a incontrare il mare. Potevi osservarlo mentre si portava via non solo la pioggia invernale – addio! addio! ma tutto ciò che era necessario perdere.

E di quello ce n’era in abbondanza, ma sembrava che l’albero insistesse su qualcosa ancora più in là: oltre il ‘Braes of the Carse’ e le turbine eoliche, perfino oltre le montagne – un raggio di – cosa?

Beh, questo può funzionare in un modo o nell’altro. Potremmo restare quaggiù e sostenere che non è esistito né l’albero né, sicuramente, la distante consolazione. O forse accettare l’albero, un larice, essendo i larici tra gli oggetti di questa Terra. Ma la premonizione – no.

Concesso l’albero, tuttavia, chi può dirlo? Per quel che ne sappiamo potrebbe essere ancora là, un albero solo sulla collina. E se non un albero, allora una celidonia, che si ridesta al giallo. O una pietra che sprofonda. O il canto di un’allodola. O una lepre con i suoi occhi di mondo, in ascolto.

24/03/20

Traduzione di Giorgia Sensi
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Franco Rella, “L’assenza della storia”

Franco Rella

INCIPIT

Un uomo si trova solo in una stanza e cerca di costruire una storia che possa intramare ciò che vive il dentro di lui e ciò che sta accadendo fuori, la sua vicenda e vicende collettive. La storia non riesce. L’uomo non riesce a costruire un racconto che tenga insieme le sue contraddizioni e le contraddizioni che solcano il mondo. E’ dunque sospeso in una sorta di lacerante esitazione, braccato da una serie di domande che si ripetono e si insinuano in lui inquietanti. Alla fine, da questo suo esilio, decide di mandare comunque al mondo, a qualcuno, a nessuno le poche parole che ha.

SCRIVERE

DI FRANCO RELLA

Si dice che nulla sarà più come prima. Ogni evento in gualche modo fa deviare il corso del mondo, persino la piccola increspatura sollevata dal volo di una libellula sul pelo dell’acqua di uno stagno. Il mondo è stato piagato da Auschwitz, dalla bomba atomica, dalle guerre postcoloniali, dalle grandi migrazioni di massa, dal sessantotto, dall’11 settembre, e poi dall’irrompere delle minoranze sulla scena delle metropoli contemporanee, neri, femminismo, gay, transgender. Ora è la pandemia, è il massacro dei vecchi nelle case di riposo, è la balbettante incompetenza della politica, che fa dire che nulla sarà come prima. Che porta un intellettuale, che non solo non ha previsto il virus, ma che si è sentito impreparato ad affrontarlo, a dichiararsi disarmato. Ma Auschwitz è stato, malgrado tutto, ben più dell’attuale pandemia virale. Auschwitz è stato mettere l’insieme del sapere, a partire dall’illuminismo fino al dispiegamento della scienza e della tecnica, al servizio dell’attuazione di fabbriche di morte. Auschwitz ha corroso le coscienze, ha intaccato le anime, ha bacato le menti. Adorno ha detto una frase, che è stata ampiamente equivocata, e che rimane pur tuttavia ancora comunque discutibile. Ha detto che dopo Auschwitz non è più possibile poesia. Ma dopo Auschwitz c’è stata l’immensa poesia di Paul Celan, il tardo Montale, Wystan Hugh Auden, La montagna magica di Thomas Mann, Beckett, Philip Roth e Don DeLillo, e Yoram Kaniuk, e Yehoshua Kenaz. C’è stato Francis Bacon, Lucio Fontana, Mark Rothko. Dopo Auschwitz c’è stata anche La dialettica negativa di Adorno.

Ma dove ti collochi tu con la tua scrittura? Qui dove sei ora, nella stanza con la finestra, non hai i tuoi libri, nemmeno quel centinaio di libri che – lo hai detto da qualche parte – costituiscono il tuo bagaglio essenziale. È vero che come ha scritto Joyce non si sa mai di chi si masticano i pensieri. Hai preso per caso in mano un libro di Marguerite Duras, che certamente non fa parte del tuo bagaglio essenziale, e hai letto alcune parole che ancora prima di averle completamente lette ti eri già ripetuto più volte in questo periodo, e che caratterizzano, almeno così credi, tutto quello che stai cumulando, riga dopo riga, in queste pagine. Hai parlato della necessità di una storia, e della tua esitazione a definirla. Leggi che Duras afferma che “scrivere non è raccontare storie”. Scrivere è raccontare “una storia e l’assenza di questa storia”. È quello che hai fatto finora. Questa storia e la storia assente di Wallas, di Dora. Anche la tua storia assente, dal momento che non sei riuscito a farti trasportare dai tuoi personaggi. Sai che andrai avanti fino ad un certo punto, quando deciderai che l’assenza della storia si sia finalmente compiuta, realizzandosi come assenza oppure costruendo la sua lacuna compiuta nel corpo del testo.

È per questo che vinci la tentazione di ripercorrere ciò che hai scritto, di mettere a posto le parti dissonanti, gli elementi che ciò che è venuto dopo ha reso incongrui o contraddittori. Qualsiasi correzione cercherebbe inevitabilmente di smussare gli spigoli e gli angoli del disegno che traccia via via il profilo di quella lacuna che è lo spazio della storia che non c’è, della storia assente, che è cresciuta fino a sovrapporsi e prendere il posto di qualsiasi storia possibile. Continua a leggere

Paul Celan, “Svolta del respiro”

Paul Celan

PAUL CELAN
ATEMWENDE

FA’ PURE, se a un pasto di neve
tu vuoi invitarmi:
ogni volta che spalla a spalla
col gelso percorsi l’estate,
il suo fogliame più fresco
vociava.

DU DARFST mich getrost
mit Schnee bewirten:
sooft ich Schulter an Schulter
mit dem Maulbeerbaum schritt durch den Sommer,
schrie sein jüngstes
Blatt.

*

(TI CONOSCO, sei colei che sta ricurva,
io, il trafitto, ti sono soggetto.
Dove divampa un verbo, che sia d’entrambi
testimonianza? Tu – interamente,
interamente vera. Io – pura follia.)

(ICH KENNE DICH, du bist die tief Gebeugte,
ich, der Durchbohrte, bin dir untertan.
Wo flammt ein Wort, das für uns beide zeugte?
Du – ganz, ganz wirklich. Ich – ganz Wahn.)

*

PRESSO I CALPESTATI
segni, nella
tenda dell’olio, con pelle di parole.
Al termine del Tempo,
lamentandosi
senza un suono
– Tu, aria regale, inchiodata
alla Croce della Peste, ora
tu fiorirai -,
con occhi porosi.
con squame di dolore, a
cavallo.

BEI DEN ZUSAMMENGETRETENEN
Zeichen, im
worthäutigen Ölzelt, am Ausgang
der Zeit,
hellgestöhnt
ohne Laut
– du, Königsluft, ans
Pestkreuz genalgelte,
blühst du -,
porenäugig,
schmerzgesschuppt, zu
Pferde.

PAUL CELAN, Poesie, I Meridiani, traduzione di Giuseppe Bevilacqua, 1998 Continua a leggere