Premio per la Traduzione “Benno Geiger”

Fabio Scotto

Cerimonia di consegna del Premio per la traduzione poetica “Benno Geiger”

Il 16 dicembre 2021 a Venezia, alle ore 17 alla Fondazione Giorgio Cini all’Isola di San Giorgio Maggiore si svolgerà la Cerimonia di Premiazione nella quale verrà consegnato il Premio per la traduzione poetica “Benno Geiger” 2021.

Il Premio è stato istituito nel 2014 dalla Fondazione Giorgio Cini in memoria del letterato austriaco Benno Geiger, il cui fondo letterario è conservato e valorizzato sull’Isola di San Giorgio Maggiore.

Interverrà il Professor Francesco Zambon, con una prolusione sul tema: Tradurre i trovatori.

Federico Italiano

I vincitori dei premi sono Fabio Scotto e Federico Italiano che il 16 dicembre 2021 alle ore 17.00 riceveranno, nel corso della cerimonia, il Premio per la Traduzione Poetica “Benno Geiger” 2021.

Fabio Scotto vince con la traduzione dell’opera Nell’inganno della soglia di Yves Bonnefoy un premio in denaro del valore di 4.000 euro, mentre Federico Italiano riceve il premio destinato ai giovani traduttori di 1.000 euro per Variazioni sul barile dell’acqua piovana di Jan Wagner. Continua a leggere

Una poesia inedita di Peter Balakian

Peter Balakian

Erbe dell’ignoto

Non dimenticare l’estate del covid
era verde con il sole nel centro di New York.

Ricorda che il verde era traslucido,
foglia di olmo giallo-blu e aghi di abete rosso,

il verde delle strisce opache di Rothko
il verde di Giotto fatto con tuorli d’uovo sull’intonaco,

il verde sfocato delle ninfee a Giverny
il verde di Arshile Gorky nei giardini di Van,

verde traslucido dell’uva sul davanzale
il latte versato sulla tazza di maiolica verde,

i cipressi di Van Gogh nel vento di Arles
che soffia sulle onde verde salvia del Rodano —

nell’orchidea falcata
tra le fronde della Giungla di Rousseau

e il verde d’inchiostro e acqua sulla lavagna di Maria
che mi ha svegliato prima dell’alba —

il muro bianco della mia stanza che incornicia il mondo
prima di contemplare un campo di farfalle ansiose.

Mente di strisce ed emulsioni. Erbe dell’ignoto.
Resta. Nel ritorno. Tuorli d’uovo sull’intonaco.

Peter Balakian, da No Sign, University of Chicago Press, 2022, traduzione di Alberto Fraccacreta. Continua a leggere

René Char e Giorgio Caproni

René Char

Nous sommes pareils à ces crapauds qui dans l’austère
nuit des marais s’appellent et ne se voient pas, ployant
à leur cri d’amour toute la fatalité de l’univers.

Somigliamo a quei rospi che nell’austera
notte delle paludi si chiamano e non si vedono,
piegando al loro grido d’amore
tutta la fatalità dell’universo.

***

La lumière a été chassée de nos yeux. Elle est enfouie
quelque part dans nos os. A notre tour nous la chassons
pour lui restituer sa couronne.

Bandita dai nostri occhi, la luce si è nascosta
da qualche parte nelle nostre ossa. La scacciamo
a nostra volta, per restituirle la corona.


Giorgio Caproni traduce René Char (Einaudi, 2018) Continua a leggere

Sergio D’Amaro, “Il ponte di Heidelberg”

Sergio D’Amaro

COMMENTO DI ALBERTO FRACCACRETA

 

Il ponte di Heidelberg di Sergio D’Amaro uscì in prima edizione nel 1990. Riappare oggi nell’elegante traduzione americana di Cosma Siani, scorciata di qualche componimento. Ambientata in Germania, la silloge consta di trenta poesie-lettere (quarantanove in origine) rivolte a un fantomatico Friedrich, complice di un itinerario filosofico-esistenziale che l’io lirico elegge a principium essendi muovendosi, come il protagonista delle Notti bianche, nello spazio trasognato di un’«età vergine». La lirica ‘dialogica’ — per utilizzare una terminologia bachtiniana — di D’Amaro rivela una Spannung espressiva fatta di nominalismo acceso (molti gli autori citati), di un linguaggio aperto a prestiti e soluzioni ironiche («my sweet home, my sweet love/ mea capsa, mea maxima capsa»), di un magistero letterario da impartire all’amico. Magistero che funziona come estremo testamento, dono, volontà, varco in cui l’elemento liquido che compone l’umano (la parola ‘acqua’ è il semantema fondamentale del libro) produce al contempo la condanna e lo scampo del destino (la necessità montaliana e il ‘miracolo’): «Vado così senza passato verso le acque del fiume/ e guardo attentamente i riflessi di ogni singola onda./ Da essa può trasparire/ il sintomo di un attimo eterno/ o l’insensata corsa degli orologi all’ultima foce». Il ponte di Heidelberg, in questa versione riveduta, presenta ancora un dettame ricco e un piglio tonale tra i più interessanti della poesia fin de siècle.

ESTRATTI

Da The Bridge of Heidelberg

 

16

 

Ti mando un pacco di traduzioni

da Rousseau e Stendhal.
Capirai il perché della spedizione

a lettura ultimata.

Non chiedere perciò anticipi sull’anima degli autori

e sulla verità irrefutabile di quei testi.
Citerai certo Agostino
e non importa se cadrai in questa tentazione.

L’importante è riflettere

sulle linee parallele della vita
sulla certezza della nascita
e su come uscire dopo la festa dalla folla. Continua a leggere

Nuno Júdice, verità della poesia e poesia della verità

Nuno Júdice, per gentile concessione

Sulla poesia di Nuno Júdice
di Marco Bruno

C’è, nella poesia di Nuno Júdice, qualcosa che non c’è: c’è il non esserci di una caratteristica, una dote, una maledizione: l’ironia. L’ironia è quasi totalmente assente dalla poesia di questo grandissimo poeta portoghese, e anche quando c’è, è dolce, non è mai maligna, come se il poeta trascendesse, in questi momenti di altissimo lirismo e pensiero, la scherzosità – racchiudendola in sé, in modo giocoso e velato – e la meschinità comune del quotidiano. Júdice è poeta vero e sincero, che non finge una moralità, ma, per dirla montalianamente, fa del proprio meglio. E il risultato è sublime.

Ma ciò è dire ancora poco; con rispetto, ammirazione, venerazione ci accostiamo a questi versi, la cui complessità è spesso vertiginosa. Abbiamo scelto, traducendole, cinque poesie da uno dei libri più belli di Júdice, Guia de conceitos básicos (2010), ancora inedito in Italia. Il lirismo, leopardianamente, non vive alcun conflitto col pensiero, anzi scaturisce da esso.

È la ricerca della verità della poesia, che va a braccetto con la poesia della verità. L’universalità. Il paradosso, che sembra negare la possibilità della convivenza, in realtà, e proprio per contraddizione, la afferma. Essendo un paradosso, è ciò che non è, e in questo non c’è alcuna contraddizione, perché la poesia è un linguaggio trasfigurato, dove, e anche o soprattutto in Júdice fra gli altri, la parola deve, con semplicità (altro paradosso, apparentemente), dire, pronunciare, incarnare la bellezza della vita, bellezza gioiosa e dolorosa, sempre e ancora aquém (al di qua) della joie proustiana, bellezza pessoana, dove ciò che è bello e positivo lo è sempre in controluce, nella nostalgia, perché “non si percepisce mai la vita / così forte come nella sua perdita” (Mario Luzi, Quanta vita, vv. 24-25).

La bellezza della scrittura, allora, riscatto della pochezza umana quotidiana, non è bellezza formale, wildiana, mortale, ma è estetica vera, non proustianamente gioiosa, bensì malinconica, ma pura e, direi, persino disinteressata, arte dell’immortalamento delle briciole di vita, quelle briciole grandiose che dànno senso a un’esistenza intera. La vita, quella poesia che tutti possiamo vivere quotidianamente, si ferma e si esprime nelle poesie di Júdice, poesie voce di un rammarico per qualcosa che estasia, folgora e non si ferma.

Júdice trae linfa dalla propria capacità di pensare: ma è un pensiero non arido, non puramente intellettuale o logico, bensì vivente degli attimi della poesia. Lo sviluppo è sviluppo solo perché c’è la poesia, quell’essenza accaparrata da Croce (che rifà Leopardi negandolo), negata dalla scuola materialista, ma inalienabile. La poesia è la capacità di Júdice, o meglio del soggetto, del personaggio di Júdice, di pensare, di vivere, di non vivere. La condizione è la stessa del Montale delle Conclusioni provvisorie; ma il paesaggio è già quello di Satura. Pessoa, sì, ma in una dimensione più costruttiva, anzi, forse sarebbe il caso di dire, strutturale o strutturalista. E Blanchot, la riflessione geniale, sublime, sull’ontologia della poesia e della letteratura, la lezione benjaminiana, la libertà spregiudicata dell’approccio alla parola e alla storia, la poesia come saggio, il saggio come poesia. “Lo sguardo di Orfeo”: Blanchot, appunto, la densità vertiginosa del pensiero, che, come in Júdice, dolcissimamente non lascia scampo. Attenzione anche al gioco di Júdice col linguaggio, con la ripetizione, con l’architettura razionale e combinatoria, ma mai arida, sempre lirica. Ed è nell’ultima di queste liriche selezionate che si vede, si porge il gioco catartico: Júdice affronta il proprio dèmone o demonio.

“Episodio di caffè”. La morte è la letteratura, ma solo la letteratura salva dalla morte. Non c’è la gioia, ma c’è comunque Proust, e l’apparentemente negativo Pessoa.

Il poeta è inseguito da Euridice come dalla morte stessa, e solo se inverte il movimento della macchina da presa, fuggendo in avanti anziché all’indietro, e scegliendo lo stratagemma, l’astuzia del congelamento del tempo – la parola, qui sotto forma di “mi fermai” – per farsi precedere dalla negazione di sé (il desiderio di rivedere la donna, di rivedere se stesso, di morire, di diventare immortale, perché dà un nome), solo guardandola in faccia, e stabilendo se la morte è una metafora o meno, se lui è un poeta o meno, scegliendo fra la vita e la poesia, ma soltanto nell’affrontare la morte salvando entrambe; soltanto ingannando la propria paura della morte – interrogando il fantasma proprio tacendo, dandogli la parola, per poi sopravvivere in una domanda pilatiana che salva tutta la verità (e la vita) proprio perché non la nomina – può rovesciare la dannazione di guardare Euridice – la morte di Euridice – sempre dalla contraddizione di chi sta avanti senza voler camminare, procedere, vivere, scrivere. Solo uccidendo Euridice – salvandola per sempre, lasciandosi precedere da lei senza sapere chi ella sia – il poeta che forse non è più moderno ma contemporaneo (e cosa significa?) cioè classico, solo così questo poeta può, nell’enigma, salvare la verità, quella della poesia, cioè della vita.

Cracovia, 19 ottobre 2021

da Guia de conceitos básicos [Guida di concetti basici], Publicações Dom Quixote, Lisboa 2010

UMA REFLEXÃO SOBRE A BELEZA ETERNA, INTERROMPIDA PELA VISÃO DO EFÉMERO

A harmonia que, para os clássicos, exprimia a relação
das partes com o todo, atravessou os milénios sem alterar
o equilíbrio do homem no centro da sua esfera. Esse
homem, com a sua representação simétrica, define-se
a partir de um universo que tem um limite
na compreensão divina da matéria
e do espírito. E poderia continuar assim, se
não ouvisse um copo a partir-se no fundo
da casa – alguém que se distraiu, e que rompeu,
de súbito, o meu raciocínio. Ao mesmo tempo,
porém, descobri que nada do que eu pensava
era original; e só ao apanhar do chão os vidros
partidos, um brilho breve no seu contacto com
a luz me fez pensar que, afinal, a harmonia
também nasce da destruição, e o centro da esfera
desloca-se para o fragmento que seguro com
os dedos, antes de o deitar para o lixo.

UNA RIFLESSIONE SUL BELLO ETERNO,INTERROTTA DALLA VISIONE DELL’EFFIMERO

L’armonia che, per i classici, esprimeva il rapporto
delle parti con il tutto, ha attraversato i millenni senza alterare
l’equilibrio dell’uomo nel centro della sua sfera. Codesto
uomo, con la sua rappresentazione simmetrica, si definisce
a partire da un universo che ha un limite
nella comprensione divina della materia
e dello spirito. E potrei continuare così, se
non udissi rompersi un bicchiere in fondo
alla casa – qualcuno che si è distratto, e che ha rotto,
di colpo, il mio ragionamento. Al tempo stesso,
però, ho scoperto che nulla di ciò che io pensavo
era originale; e soltanto prendendo dal pavimento i vetri
rotti, un luccichio breve nel loro contatto con
la luce mi ha fatto pensare che, in fin dei conti, anche
l’armonia nasce dalla distruzione, e il centro della sfera
si sposta nel frammento che mantengo con
le dita, prima di gettarlo nella spazzatura. Continua a leggere