Sylvia Plath, “Tulips/Tulipani”

Sylvia Plath


LA POESIA CONFESSIONALE

di Luigia Sorrentino

Sylvia Plath e Anne Sexton fra gli anni Cinquanta e Sessanta introducono negli Stati Uniti una poesia che venne definita dalla critica Confessional. Un genere che ha avuto poco seguito anche perché in quel periodo storico in America si andava diffondendo la poesia della beat generation, un movimento artistico e di protesta contro la società americana.

Il genere Confessional  definito anche “poesia automatica”, non poneva alcun filtro all’espressione poetica basata sull’esperienza personale e biografica.

E’ il 1961. Sylvia ha appena subito un intervento chirurgico ed è ricoverata in ospedale quando le viene recapitato nella stanza un mazzo di tulipani rossi. I fiori diventano nella poesia della Plath, l’estensione di ciò che Sylvia sta vivendo in quel preciso momento.
Il candore della stanza in cui si trova, una stanza bianca, interiore e psichica, viene turbato dalla presenza sanguigna dei tulipani che diventano il pretesto per vivere e confessare la propria condizione di alienazione. Attraverso i tulipani la Plath rivive l’esperienza drammatica della sua esistenza, sempre in bilico fra la ricerca della vita e la ricerca della morte.

Sylvia Plath scrive Tulips tre anni prima del suicidio e inserisce la poesia nella raccolta  “Ariel”.

Il volume dei Meridiani Mondadori qui presentato, raccoglie l’intera opera poetica di Sylvia Plath, con testo a fronte, secondo l’edizione definitiva dei Collected Poems curata da Ted Hughes nel 1981. Sono inoltre inclusi nel volume il romanzo autobiografico “La campana di vetro” e un’ampia selezione di racconti e di pagine tratte dai “Diari”. La raccolta, curata da Anna Ravano, contiene un’introduzione firmata da Nadia Fusini.

Luigia Sorrentino legge da “Ariel”, nella traduzione di Giovanni Giudici,  Tulipani, di Sylvia Plath sulle note di “The ritual” (Outro) del compositore ungherese Bèla Bartók.

(Tecnico di produzione Mattia Cusano).

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Alberto Bertoni, ZANDRI (Ceneri)

Alberto Bertoni a Poesia Festival / photo© Serena Campanini

Per la prima volta Alberto Bertoni in quest’opera (Book Editore, 2018) sperimenta in poesia interamente la lingua dialettale modenese. Un’opera raffinata, uscita nella collana  diretta da Nina Nasilli. Il poeta si concede per la prima volta e  in modo naturale alla lingua madre della sua terra d’origine. La postilla è di Fabio Marri.

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25 poesie per l’infanzia e non solo

Evelina De Signoribus

Creare un incontro

Poeti in classe” nasce dall’idea di creare un incontro: quello tra i bambini, la poesia e chi la scrive. Per creare questa possibilità ciascuna sezione del libro corrisponde alla voce di un poeta che prima, in prosa, si presenta e racconta il modo in cui ha incontrato la poesia; poi dona al lettore/ascoltatore alcuni suoi versi, anticipati da un breve commento, che funziona come continuazione del dialogo e possibile guida alla lettura del testo. Le voci dei poeti, tra loro assai diverse tanto nelle parti in prosa quanto nei versi donati, sono accomunate dall’idea di rivolgersi al pubblico bambino quale è: meritevole di vera letteratura, esigente, curioso e desideroso spesso di sperimentare quel che fa la buona poesia: crea infatti un legame tra chi legge e chi ascolta, inizia al suono delle parole e al ritmo del verso o della frase, apre ad un linguaggio che è anche e non solo interiore, aiuta a conoscere se stessi e gli altri. Continua a leggere

Anna Cascella Luciani

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Anna Cascella Luciani, in una foto di Dino Ignani

 

Dalla Nota di Marco Corsi a Gli amori terreni 2009-2012

Le parole che compiono un gesto intorno ad altre parole hanno una doppia responsabilità: quella non facile di indicare una direzione e quella più onerosa di trovare il punto cieco del discorso, il suo inesauribile centro. Tanto più se certe parole – quelle che sono oggetto di osservazione – possiedono un passato importante alle spalle: un passato che conta almeno quarant’anni di poesia e di pensiero critico sulla poesia. Continua a leggere

Roberto Alperoli: “La poesia purifica la lingua, la salva”

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Roberto Alperoli

INTERVISTA di Guido Monti

Incontro Roberto Alperoli ideatore e direttore artistico di Poesia Festival Terre dei Castelli, uno degli eventi più riusciti per qualità e progettualità culturale che si tiene da dodici anni nel territorio emiliano. Ci sediamo in una trattoria di Modena molto nota vicino al teatro Storchi. La canicola del sole settembrino ci riporta in pieno agosto. I suoi occhi in attesa di domande, hanno quella vividezza e curiosità propria di quei bimbi al culmine della fanciullezza. Roberto nel tuo libro,“Il cielo di oggi”, di qualche hanno fa, in una poesia molto toccante dal titolo “La madre”, dici : “E’ tanto tempo/che non mi manchi più,/che non mi chiami; /eppure sei stata tu // la mano del mio principio, l’assunto abbagliante/del mio dolore; //…”. Ecco allora potrei girarti questa poesia in forma di domanda.

Come è maturata in te la decisione di creare questo festival nel 2005 assieme ai compagni del primo momento Alberto Bertoni e Paola Nava? Forse appunto perché la poesia la sentivi come mano del tuo principio e volevi però anche tenacemente mostrarla ad una comunità più ampia? Avevi intuito che questo territorio potesse avere in sé quel terreno di coltura per la crescita della pianta poetica?

Ho un lungo rapporto con la poesia, che fa parte della mia vita da sempre, direi. La leggo, la scrivo, la seguo nella sua dimensione pubblica. Il suo valore, la sua importanza – anche terapeutica – la sperimento (l’ho sperimentata) su di me, sulle persone che conosco. Anche sul valore pubblico, civile, etico della poesia rifletto da tempo. Soprattutto oggi che la lingua è stata colpita al cuore, che il linguaggio è un lungo, ininterrotto boato di frasi fatte, inerti, di parole caricaturali, senz’anima. La nostra è un’epoca di monotonia espressiva, spettacolare e rumorosa. La lingua è gridata nelle trasmissioni televisive, mortificata dalla pochezza della politica, massificata e banalizzata dal web, orfana dei comportamenti e dei modelli che, un tempo, ne sapevano custodire la vocazione civile. Il linguaggio della politica, poi, ne ha enfatizzato l’impotenza. Il dolore della lingua è proprio la sua inespressività. E nel frastuono e nell’impoverimento delle parole siamo tutti più poveri. Ecco, salvare la lingua, il bene pubblico della lingua, significa allora salvare noi stessi, le nostre emozioni e i nostri pensieri, che solo il linguaggio rende comprensibili e comunicabili. Ed è qui il valore della poesia, che si oppone a questo collasso perché è un ingrediente attivo del linguaggio, uno spazio per la propria identità. Purifica la lingua, rimette al mondo l’innocenza delle parole. Si oppone alla miseria individuale e alla miseria pubblica. Continua a leggere