Olimpia, il ventre sacro del mito

Luigia Sorrentino ph. GIanni Rollin

di Bianca Sorrentino

Alcuni luoghi custodiscono in sé un senso del sacro che li eleva dalla loro natura terrena: non fa eccezione la città di Olimpia, che, per via del nome etimologicamente legato al monte sede degli dèi, non poté mai essere disgiunta dal suo ruolo di centro di culto, tanto che nell’immaginario collettivo essa continua a essere pervasa da un’aura di spiritualità profondissima, nella grazia delle sue rovine. La traccia di questo mistero attraversa le pagine di Olimpia, il poema con il quale Luigia Sorrentino si fa soglia e accoglie verità che arrivano da un tempo altro, dal tempo prima dei giorni.
Così, da una Grecia che incessantemente sprigiona la sua forza antica e nello stupore rivela la sua contemporaneità, questi versi cristallini proiettano il lettore su un sentiero che, da un antro oscuro, conduce al bagliore che inonda chi riesce ad approdare a un nuovo orizzonte: viaggio che è dunque iniziazione e, insieme, serena accettazione dell’insolubilità di certi interrogativi che, tormentando furiosamente l’uomo, finiscono per ancorarlo alla sua dimensione mortale. Una sensibilità viscerale – che è simbolo del Femminile – permette a Luigia Sorrentino di accarezzare le eterne questioni dell’umano; ma è la sua qualità di autrice che le consente di trascendere i temi su un piano più alto, nella ricerca di una lingua raffinata, inattuale, che al contempo risuoni nella sua naturalezza: le parole di Olimpia – donna e città, bianca e altissima – non ammettono repliche, sono figlie della poesia irrevocabile dei tragici greci, che come nessun altro seppero dar voce al mito.

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Antonio Nazzaro & Luigia Sorrentino

Proponiamo un’anteprima di alcune poesie di Luigia Sorrentino tradotte in spagnolo da Antonio Nazzaro e pubblicate dalla rivista di poesie ispano-americana Ærea, (link: http://www.aepoesia.com/p/inicio.htmlu) diretta da Daniel Calabrese e Eleonora Finkelstein.

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Seamus Heaney

In quel momento

Un intero nido di uova fredde, semi nascosto
nel concime di foglie dell’autunno scorso, compresi
dalla sua immobile opacità, marcito,
mutava in sudore di morte la rugiada del mattino
che non ne rischiarava i gusci ma li infracidava.
Ero a carponi là nell’umida
erba sotto la siepe, in adorazione,
mattiniero, intento a tendere la mano
e avvezzo a trovare uova tiepide. E invece
questa improvvisa borchia polare
e marchio e freddo d’alba cerchiato di pietre
nella mia mortificata mano destra, prova evidente
di ciò che tramava in quel momento per guastare
la materia nel proprio impasse planetario.

(da District and Circle, a cura di Luca Guerneri, Mondadori, Milano, 2009) Continua a leggere

Golan Haji, “Le poesie che scrivo iniziano, come me, ad allontanarsi dalla Siria. Sento che la fine si avvicina”

Golan Haji

di Luigia Sorrentino

Ho incontrato per la prima volta Golan Haji poeta curdo- siriano (migrato  in Europa nel 2011) a Roma, il 15 maggio 2017, in occasione dello spettacolo CANTI D’ESILIO, con musiche di David Lang, Carlo Galante, Carlo Putelli, Matteo D’Amico. Lo spettacolo proponeva per la prima volta al pubblico versi di Golan tradotti in italiano.

Poco tempo dopo, ho incontrato nuovamente Golan Haji a Parigi, città dove vive. Il nostro secondo incontro ha generato questa sorta di “Racconto autobiografico” che Golan ha scritto in inglese, qui riportato anche nella traduzione in lingua italiana.

Naturalmente prima di conoscere personalmente Golan, avevo già letto il suo primo libro di poesie pubblicato in Italia: “L’autunno qui è magico e immenso”, traduzione dall’arabo di Patrizia Zanella, a cura di Costanza Ferrini (ed. Il Sirente, 2013).

La lingua madre di Golan è il curdo, ma le sue poesie sono scritte in arabo. Qualche volta Golan le traduce in inglese.

Leggendo la poesia di Golan ho incontrato l’orrore e la disperazione della guerra in Siria, il silenzio che tutto copre, ma anche la bellezza e l’amore. La guerra è per il poeta siriano un colpo contundente che colpisce e ferisce la sua terra d’origine, ma la sua lingua è magica, lenisce le ferite e cammina, viene verso di noi e ci tocca, intimamente, ci tocca.

Scrigno di dolore

Ti sostengo,
seppure debole come te, io ti sostengo.
Non come una mano che sorregge il mento di un saggio,
né come un invalido che aiuta gli invalidi,
né come un bastone che un cieco
infila nelle foglie cadute sul marciapiede,
né una palla su cui i pagliacci stanno in equilibrio
come se fosse un unico pianeta
a ruzzolare su questo folle pianeta.

Io, che sono lontano,
ti sostengo nella solitudine,
come un dito che va sulla gota di una vedova,
vibrando come una freccia appena scoccata,
mentre gli brilla sulla punta un cristallo di sale
che risale all’occhio che l’aveva versato
inondato di ombre e ali.

 

di Golan Haji

La mia prima raccolta di poesie si intitola “Chiamò nelle tenebre” ed è stata pubblicata nel 2004. Ha vinto il premio Mohammad Al-Maghout.

Al-Maghout era un importante poeta siriano, considerato un pioniere del verso libero e della prosa nella poesia araba modernista. Prese parte al movimento che c’era dietro la rivista Poesia negli anni ’50. Quel movimento modernista cambiò profondamente la poesia araba nella seconda metà del XX secolo, sebbene Al-Maghout non dimostrò mai interesse per nessun movimento. Diceva che l’unica ragione per cui era diventato membro del Partito Nazionalista Siriano era il camino nel suo ufficio, per lui che nella sua città natale era uno senza un soldo. Continua a leggere