Tornano in libreria due volumi fondamentali di Eugenio Montale

EUGENIO MONTALE

C O M U N I C A T O   S T A M P A

I poeti defunti dormono tranquilli
sotto i loro epitaffi
e hanno solo un sussulto d’indignazione
qualora un inutile scriba ricordi il loro nome.

(Eugenio Montale)

Eugenio Montale: maestro del Novecento italiano, poeta sensibile e introverso che mise in versi il “male di vivere”

Non fu di certo il primo a incontrare il male di vivere, ma Eugenio Montale (Genova 1896 – Milano 1981) fu in grado, più di ogni altro, di trasformarlo in poesia. Versi modernissimi i suoi, che ci toccano nel profondo e risvegliano in noi il valore insopprimibile dell’esistenza priva di illusioni.

Nel 2021 si è voluto ricordare il maestro della poesia del Novecento a quarant’anni dalla sua scomparsa.

Per celebrare l’ importante anniversario Mondadori prosegue la pubblicazione dei testi montaliani ne Lo Specchio.

La collana di poesia si arricchisce di due nuove edizioni delle opere di Eugenio Montale: Quaderno di traduzioni e Farfalla di Dinard. Testi che tornano in libreria dopo una lunga assenza in versione commentata – caratteristica, questa, di tutte le nuove edizioni montaliane pubblicate da Mondadori – regalandoci una visione più completa dell’opera del grande autore e ricordandoci quanto vasta fu la sua produzione non solo come poeta, ma anche come traduttore e sperimentatore linguistico tout courtì

Quaderno di traduzioni

Quaderno di traduzioni ci permette di entrare nell’officina lavorativa di Montale e di conoscere le sue traduzioni di autori come Shakespeare, Yeats e Djuna Barnes, Kavafis, Emily Dickinson, Hopkins, Melville, Joyce, Eliot.

Un’opera unica nel suo genere, in cui salta all’occhio il bisogno di Montale di cimentarsi con le opere di altri poeti, sfidando le varie forme dei testi originali, allo scopo, felicemente raggiunto, di ricrearne il carattere poetico nel corpo e nelle intonazioni particolari della nostra lingua.

Farfalla di Dinard

Farfalla di Dinard raccoglie invece testi inizialmente destinati alle pagine di un quotidiano e ci propone una formidabile e godibilissima serie di ambienti e personaggi, che spaziano da episodi dell’infanzia e della giovinezza del poeta a testi dedicati ad animali e oggetti capaci di attivare il gioco della memoria.

Racconto, elzeviro e prosa poetica si alternano felicemente. Come scriveva Marco Forti, «se anche Eugenio Montale, paradossalmente, non avesse scritto e pubblicato un solo verso», non avrebbe «mancato di lasciare una traccia anch’essa primaria».

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Enzo Cucchi, “Excercices on Ezra”

Enzo Cucchi, per gentile concessione

Excercises on Ezra

Nota di

Fabrizio Fantoni

 

Tra il dominio del caos e l’ordine decorativo, si estende una nuova zona e una chiave per cogliere questa mobilità è la disposizione a formare ammassi: di storia, di sentimenti, di espressioni artistiche; vivendo simultaneamente ad attimi di sogno, allora non più storia ma ammassi di storia.”
(Enzo Cucchi)

 

Le parole di Enzo Cucchi qui riportate costituiscono un valido punto di partenza per accostarsi al nuovo libro, intitolato “Excercises on Ezra”, che l’artista ha pubblicato in questi giorni con la COLLI publishing platform e Viaindustriae publishing.

Visionario e sorprendente come tutte le opere di Enzo Cucchi, il libro si presenta a prima vista come un conglomerato di materiali fra loro eterogenei – disegni, fotografie, grafiche – che entrano in dialogo con le parole tratte dal testo “Il grano” scritto da Giuseppe Cucchi (padre dell’artista) e Brunella Antomarini, in cui viene evocata la vita dei contadini a Morro d’Alba.

Nucleo centrale dell’opera è costituito da una sequenza di 35 disegni inediti, tutti dedicati al poeta Ezra Pound. Continua a leggere

Charles Simic, poesie

Charles Simic

Gente fuori di testa

Di questi giorni solo gli uccelli e gli animali
sono sani di mente e vale la pena parlarci.
Non mi spiace aspettare che un cavallo
smetta di brucare e mi dia retta.

Perfino un albero è più di compagnia.
Una quercia orgogliosa dei suoi rami
carichi di foglie troppo a modo
per rivolgersi a un estraneo con più di un sussurro.

Un corvo sarebbe un buon amico.
Quello che ho adocchiato
mi conosce bene, ma al momento
è indaffarato con una cosa che ha visto

nel cortile del vicino, che passa
sul terreno bruciato dove
anni fa soleva razzolare una dozzina di galline
con un gallo che strillava tutto il giorno.

Mad People

Only birds and animals these days
Are sane and worth talking to.
I don’t mind waiting for a horse
To stop grazing and hear me out.

Even a tree is better company.
Some oak proud of its branches
Heavy with leaves too polite
To address a stranger above a whisper.

A crow would make a good friend.
The one I have my eye on
Knows me well, but is currently
Busy with something he’s spotted

In my neighbor’s yard, going over
The scorched ground where
Years ago a dozen hens used to roam
And a rooster who crowed all day. Continua a leggere

Alessandro Anil, inediti

Alessandro Anil

Da L’acqua della nostra sete

Terzo movimento

Note sulla melodia dell’acqua

I

L’uomo al risveglio la prima cosa che sente è la sete, poi lentamente il raggio
penetra la cupola del sonno e il corpo torna avvolto dall’abito che altri
toccheranno, guarderanno. La popolazione apre le porte, espirano vapori
trattenuti nella notte. È l’ora questa quando l’eterna contesa fra luce e ombra
rinnova questo ritorno quotidiano dalla morte chiamata sonno
verso il sogno condiviso da cui un giorno, ci sveglieremo. Il paesaggio avanza
e noi ritroviamo le inquietudini. Che sia Firenze e la festa al plurale di archi
incorniciati dallo sguardo, o Roma e i suoi busti, Augusto, Lesbia, Tiberio,
il prezzo per l’eternità è tramutare la carne in pietra, perché la sete è un fiume
ma la sua assenza è quell’altro desiderio che minaccia di non estinguersi
e l’uomo, un affluente a sua volta assetato, che fra i due crepuscoli del giorno
torna a riversarsi nelle strade, a inondare i più intimi recessi di una metropoli,
come acqua che scorre fra le crepe, acqua che sale fino all’orlo
in cerca di un atrio, una porta dove ripararsi, una casa abitata
o il pronto soccorso dove ricevere la dose d’anestesia chiamata
vita. Io, il più mortale fra gli esseri, osservo questa nascita, il lungofiume infinito
che rende il nostro tempo ancora più breve. Non oso scendere nelle acque,
come può un frammento fissare l’eterno? Forse per questo ai morti
si coprono gli occhi. Eppure, il corpo vorrebbe immergersi, diventare
un bassorilievo sul fondale oscuro di quest’altra massa di convenzioni
chiamata mondo: accettare le leggi dell’uomo o la gloria di una sorte
spezzata, restare in contemplazione o manifestare, innamorarsi
o fuggire, maestri del disincanto o professori di una lotta estinta? Le acque
trasportano detriti, sudiciume, un po’ di quell’aria spensierata che a volte,
ci ha intrattenuti, resta un sapore di carta zuccherata, la lontananza
di un bene mai fatto o dei rami tagliati alla rinfusa ai margini del marciapiede,
il tempo disgraziatamente perso senza piegare le dita, senza la possibilità
di un ritorno e quella imprecisata sensazione nel corpo ogni volta
che si riconosce, l’amore è all’ultimo, sul nervo delle cose perdute per sempre
e ritrovate nel suono che hanno lasciato andandosene. Non si placherà
con la morte la nostra sete, sopravvivrà a noi, tornerà nella terra, sarà terra assetata.

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Naufragio con spettatore

Luigia Sorrentino /credits ph. Fabrizio Fantoni

Naufragio con spettatore: Luigia Sorrentino, Piazzale senza nome, Pordenonelegge-Samuele Editore, 2021.

di Giuseppe Martella

 

Piazzale senza nome segna una svolta nella poesia di Luigia Sorrentino, offrendoci al contempo una spassionata testimonianza della condizione umana e una riflessione in sottotraccia sulla parola poetica, nella sua duplice funzione, inaugurale e testimoniale, nell’attuale tempo del disamore e del disincanto del mondo, del narcisismo e della solitudine di massa ormai giunti a un punto di non ritorno. Il dettato secco, febbrile, verticale procede per affondi e frammenti, scoprendo i vari livelli di lettura possibili e mimando l’esplosione della forma (d’arte e di vita) nell’attuale spazio dei flussi di informazioni, capitali e merci, in questa nostra tarda modernità liquida. Il testo possiede dunque una implicita valenza politica ed ecologica, mettendo in scena in modo solidale il declino dell’autorità e della fiducia, insieme alla sofferenza della madre terra sulla soglia del disastro ambientale.

Questo tema della sofferenza tellurica, è stato peraltro una costante della poesia di Sorrentino da La Nascita, solo la nascita (2009) a Olimpia (2013), richiamandosi al mito cosmogonico di Rea cui lo sposo, Crono, ingoiava i figli lasciandola in uno stato di lutto permanente. Tale mito ci riporta dunque anche alla situazione di tempo fermo, passato che non passa, chiusura d’orizzonte che caratterizza il presente allargato dell’attuale globalizzazione e il “tempo reale” degli scambi su internet, che appare così come la odierna incarnazione della rete di Ananke. Perché la poesia di Sorrentino si è da sempre mossa in uno spazio intermedio fra la cronaca e il mito, solo che ora qui avviene una sorta di ribaltamento gestaltico, sicché il mito recede sullo sfondo mentre la cronaca balza in primo piano. Si tratta di una cronaca scheletrica, a forti tinte e contrasti, in bianco e nero, come fosse una radiografia impietosa delle malattie del nostro tempo.

La dedica al padre e l’epigrafe da Plutarco (“La morte dei vecchi è come un approdare al porto, ma la morte dei giovani è una perdita, un naufragio.”) ci offrono dall’inizio le coordinate di lettura del testo, introducendo il suo topos fondante: quello del “naufragio con spettatore”, tratto dalla ben nota immagine lucreziana dell’uomo che da sopra una roccia guarda con distacco e quasi con compiacimento una nave che sta per affondare al largo nei flutti, fungendo da metafora dell’atarassia del saggio epicureo a fronte delle tempeste della vita. La storia di questa metafora ha segnato le varie epoche della letteratura occidentale, assumendo sempre nuove connotazioni, fino al ribaltamento secco che subisce ad opera di Pascal, il quale afferma che ci troviamo tutti sulla stessa nave e che perciò nessuno può chiamarsi fuori dal suo possibile naufragio, sicché occorre accettare l’infinita scommessa della fede e della compassione. Questa storia è stata esplorata egregiamente nel secondo Novecento da Hans Blumenberg, dove però a quanto mi consta non figura la tappa precoce ivi segnata da Plutarco, che assegna, tra i morenti, ai vecchi il ruolo di spettatori e ai giovani quello di naufraghi. Non più dunque il saggio epicureo ma il vecchio navigato riassume la prospettiva teoretica, il ruolo di spettatore (theoros) a fronte dei giovani naufraghi, attori della tragedia dell’esistenza. Si tratta perciò di una declinazione importante di questa figura epocale, che nel nostro testo viene evocata e messa a frutto come seme generativo, a fondamento dell’intera fenomenologia della violenza che ne innerva forme e contenuti.

Un altro topos letterario avito qui richiamato con profitto è quello del “giardino”, hortus conclusus, spazio chiuso e ordinato, contrapposto ai luoghi aperti e anonimi che verranno visitati in seguito. E il padre, in punto di essere seppellito, apparirà infatti alla fine del poema in guisa di Giardiniere, custode dello spazio familiare (Oikos), dell’ordine e della bellezza che fanno scudo all’anomia generale. Il padre morente, figura dell’autorità in dissolvenza, viene però già dall’inizio connotato come “capra sgozzata” (13), evocando così la terza grande figura che presiede all’ordinamento poetico del testo, quella del capro espiatorio su cui si scaricano la violenza e il conflitto delle comunità umane. Questo ruolo di capro espiatorio tocca indifferentemente a vecchi e giovani, così come appare subito nella prima parte in prosa del nostro testo, nell’alternanza di campo e controcampo che caratterizza le loro morti parallele.

Questo testo è infatti un prosimetro dove le sezioni in prosa fungono da vere e proprie sceneggiature preparatorie della drammaturgia in versi che seguirà, ossia da scenari per gli atti di questa tragedia degli anonimi e dei perdenti. Come ci avverte il titolo infatti, quello dell’anonimato è il tema centrale della silloge ed è connesso alla remota possibilità della donazione dei nomi. Funzione squisitamente poetica che si profila man mano nel corso del testo, specialmente a partire dalla lirica intitolata “Nunzia”, “la ragazza dal volto antico” (52) vittima di uno stupro, che reca nel nome la speranza di un annuncio salvifico che andrà di qui in avanti concretizzandosi in figure successive come quella dell’Eroina (martire della droga) dai capelli biondi che ha “ceduto la vita alla gioia”. (61) Sono figure che si possono tutte ricondurre a quella mitica della fanciulla divina (Kore), la cui prima incarnazione è quella di Persefone rapita da Ade e fatta regina degli inferi, mentre la seconda è quella di Euridice che ivi sprofonda nel ben noto mito di Orfeo. Entrambe sono state figure centrali di Olimpia, a conferma della continuità dell’opera di Sorrentino, pure nella svolta netta che assume in Piazzale senza nome. Continua a leggere