Lo spirito tragico di Michelstaedter

Carlo Michelstaedter

Aprile

Il brivido invernale e il dubbio cielo
e i nembi oscuri che al novello amore
han fatto schermo della terra antica
dispersi a un tratto, al sol ride la terra
che d’erbe e fiori ancor s’è ricoperta
– se pur il ciel di nubi ancora svarii,
onde occhieggian le stelle nelle notti,
e nere fra il lor vario scintillare
traggan le lunghe dita pel sereno
che al piano oscuro ed ai profili neri
degli alberi dei monti si congiungono.
Ma nel cielo e nel piano, ma nell’aria,
ma nello sguardo della tua compagna
e nel pallido viso,
ma nel tuo corpo, ma per la tua bocca
canta ciò che non sai: la primavera.
Così mi tragge a me stesso diverso
e amor m’induce e desiderio, ancora
ch’io non sappia per che, pur fiduciosi.
Ché pur in me natura si nasconde
insidiosa e ignaro me sospinge.
Ahi, che mi vale, se pur fugge l’ora
e mi toglie da me sì ch’io non possa
saziar la mia fame ora qui tutta?
Ma solo e miserabile mi struggo
lontano e solo, anco s’a te vicino
parlo ed ascolto, o mia sola compagna. Continua a leggere

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La miseria del Sud

Rocco Scotellaro

LE SCENE MINIME DI SCOTELLARO

commento di Federica Giordano

In un interessante saggio sulla poesia di Rocco Scotellaro, Franco Fortini arriva a porre a sé stesso e ai lettori degli interrogativi cruciali: “la comprensione dei motivi storici della nostra azione politica è o non è essenziale per valutare ed intendere la poesia di Scotellaro? E inversamente, la poesia dei nostri tempi e quella di Rocco ci può dire qualcosa sulla direzione della nostra azione politica e della politica in genere?”. Indirettamente, la poesia di Scotellaro, con le sue scene minime, la sua delicatezza descrittiva e il fiato disincantato delle piazze spopolate di un paese che si “desertifica”, rende indispensabile una considerazione: tanto più una poesia è autentica e onesta, tanto più essa avrà il potere di plasmare profondamente la nostra vita pratica, i nostri valori e quindi, la nostra politica. L’amore e l’interesse per gli uomini e per la loro vita non può che sfociare, nella sua più alta declinazione, in una sfera della politicità.

Una dichiarazione di amore a una straniera

Non ti ho saputo dire una parola.
Senti le nostre donne
il silenzio che fanno.
Portano la toppa
dei capelli neri sulla nuca.
Hanno tutto apparecchiato
le mani sul grembo
per l’uomo che torna dalla giornata.
Silvia vuoi coricarti con me?
Tanto buio s’è fatto tra noi,
vedi, che fingono le nozze
anche i fanciulli raccolti negli spiazzi.
Vuoi sollevare per favore il sacco,
accendere il cerogeno
minuscolo sul lare,
vuoi quieta lasciarti prendere, amare?
Le nostre donne allora sono in vena
i giorni d’altalena in mezzo ai boschi. Continua a leggere

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Bellintani, il poeta che scelse di rimanere nell’ombra

Umberto Bellintani nel 1940

Per un bambino che non conosce più i passeri

Urlavan lungi dei cani (o eran gufi?).
Urlavan lungi dei cani e c’eran gufi;
e come assassini i morti si muovevano
rasenti i muri del cimitero
quando il ragazzino si trovò
solo solo nella notte.

E allora egli aveva un urlo strozzato nella gola,
ché un fruscio d’erbe lo soffocava come un serpente
e la luna veramente era cupa tra le fronde degli alberi.
Come assassini i morti si muovevano
rasenti i muri e i fianchi degli argini,

e fu allora che il bambino perse l’uso della parola,
e perse la vista comune delle viole e dei giocattoli
e il senso naturale delle cose.

Così ora tentenna il capo e nei suoi occhi è una nuvola,
ma pare un angelo divino contemplante
profonde luci assorte in se stesso.

Povera madre che lo sorvegli lungo i sentieri del tuo orto
e ora lacrimi al suo riso ebete sugli asparagi,
io non so dirti s’è sfortuna a lui toccata
o s’è migliore la sua sorte, più benigna
che al fanciullo intento a suddividere
in bianchi e neri i dadi del suo gioco. Continua a leggere

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L’inflessibilità della lingua

Marianne Moore

MARIANNE MOORE, GLI ACULEI DELLA POESIA

 

Commento di Bianca Sorrentino

 

Visionaria e affilata, audace nella difesa strenua del metafisico, Marianne Moore dà voce all’esperienza universale ammantandola di mondi altri. Imperdonabile per la sua tensione verso la perfezione, la sua poesia è “meticolosa, speciosa, inflessibile”, nelle parole di Cristina Campo: nei bestiari che con accuratezza e fantasia allestisce, la scrittrice americana accorda un dialogo tra visibile e invisibile, senza mai cedere al ricatto della facilità. Fiero e inaccessibile, il suo “cantare vigoroso” si guadagna tra le miserie dei mortali uno spazio nobile di eternità.

 

POSSO, POTREI, DEVO

Se mi direte perché la palude
appare insuperabile,
allora vi dirò perché io credo
di poterla passare se ci provo.

 

I MAY, I MIGHT, I MUST

If you will tell me why the fen
appears impassable, I then
will tell you why I think that I
can get across it if I try. Continua a leggere

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Marina Cvetaeva, “Sette Poemi” nella traduzione di Paola Ferretti

Marina Cvetaeva

LA LINGUA FEBBRILE DI MARINA CVETAEVA

COMMENTO DI LUIGIA SORRENTINO

I Sette Poemi scritti da Marina Cvetaeva fra il 1924 e il 1926 tentano di tracciare una Storia, quella di Marina, durante la prima fase dell’emigrazione. I poemi scelti, Sette su Ventuno, disegnano il mondo interiore della poetessa con una lingua febbrile, eretta, tramata da premonizioni.

OGNI PAROLA DETTA COME SE FOSSE L’ULTIMA 

Marina Cvetaeva ha descritto la poesia lirica come una linea tratteggiata, fatta di lacune bianche che mozzano il fiato, in cui manca l’aria e si mima la morte. 

Ecco che qui, l’inconfondibile voce di Marina si espande nella linea tratteggiata che va  nella direzione dell’assoluto, un assoluto costretto, fra estasi e indignazione, come respiro sincopato “coacervo di ferite“.

Continua a leggere

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