Jean-Luc Nancy, “Hymne stomique”

NOTA DI LUIGIA SORRENTINO

Lunedi 23 agosto 2021 la notizia della morte a Strasburgo a 81 anni di Jean-Luc Nancy, il grande filosofo francese discepolo di Jacques Derrida.

Jean-Luc Nancy  ha scritto opere indimenticabili tradotte In molti paesi del mondo.
Tra i suoi libri pubblicati in Italia, Essere singolare plurale, (Einaudi, 2001); La creazione del mondo (Einaudi, 2003); i due volumi di Decostruzione del cristianesimo (Cronopio, 2007-2012), Sull’amore (Bollati Boringhieri, 2009); Politica e essere con. Saggi, conferenze, conversazioni (Mimesis, 2013); Prendere la parola (Moretti&Vitali, 2013) e Noli me tangere (Centro ediotoriale Dedhoniano, 2015).

Con Nancy, uno dei maggiori protagonisti della discussione filosofica contemporanea, avevamo cominciato a scriverci con una certa regolarità da febbraio 2020, fino all’ aprile di quest’anno, e cioè da quando, in piena pandemia, avevo dato vita, sul blog, al progetto Catena Umana/Human Chain, un dialogo a più voci fra diverse discipline umanistiche nel tempo del Coronavirus. A prendere  la parola sulla “crisi globale” innescata dal Covid 19, il 29 maggio 2020, era stato proprio Jean-Luc Nancy, con un’intervista a me rilasciata pochi giorni prima.

Quest’anno, in una fredda mattina di gennaio,  Nancy mi inviò  per email un suo testo inedito scritto a dicembre 2020,  Hymne Stomique, che qui pubblico integralmente per la prima volta e in lingua originale.

E’ un testo di rara bellezza. Custodisce un mistero che ognuno potrà fare suo.

Unica indicazione per lettore che vorrà cimentarsi nella traduzione nei commenti del blog: la parola “stoma” deriva dal greco e significa “bocca”, qui da intendersi come “figlia del respiro“. La bocca per Nancy è il luogo dell’accadere, è l’esperienza del toccare, del toccarsi, è la nudità del mondo che non ha origine né fine.

 

HYMNE STOMIQUE

Jean-Luc Nancy, décembre 2020

 

Chant premier

Fille du Souffle et de la Chère,
père exhalé, mère absorbée
en toi par toi dans ta trouée
comme le veut l’ordre des choses
mâle aspiré dans les nuées,
femelle sucée avalée,

toi passage dedans dehors
en haut en bas et leurs mêlées,
leur brassage leur masticage
– Mastax fut de ta parenté –
toi la mêleuse la brouilleuse
souveraine des amalgames
amal al-djam’a al-modjam’a
ou malagma du malaxer
toujours l’un qui dans l’autre passe
en transmutation d’alchymie

toi la parleuse la mangeuse
la discoureuse la buveuse
la clameuse la dévoreuse

salut, Stoma commissures humides
rejointes disjointes
viande en logos, mythos en bave

salut, toi seule véritable
seule réelle dialectique !  Continua a leggere

Lorenzo Babini, “L’arca del diluvio”

Lorenzo Babini

DI LORENZO BABINI

 

Ci sono civiltà che ci hanno lasciato, attraverso i miti, le cronache e le opere letterarie, la testimonianza di calamità che hanno sconvolto il genere umano nel corso della storia, ponendolo di fronte al limite della propria fine.

L’evento del diluvio universale può fungere in questo senso da prototipo, sia per il suo primato cronologico che per la sua esorbitante portata: lo sterminio dell’uomo deciso perentoriamente da forze superiori. Qualcuno è però destinato a salvarsi e il racconto biblico, introducendo varianti alle versioni che l’hanno preceduto, si sviluppa insistendo soprattutto su questo aspetto.

Anche nelle antiche versioni assire e babilonesi, nate a partire da testi ancora precedenti, l’eroe si salva e ottiene sia l’immortalità che la possibilità di soggiornare in un’oasi di pace alla foce dei fiumi. Quando però lo ritroviamo in scena, nella tavola XI dell’Epopea di Gilgamesh, ci appare come una figura lontana e scolorita: le sue parole ristabiliscono l’ordine, affermano in maniera netta che la vanità di ogni gesto, che l’uomo è fatto per la morte. D’un colpo ci troviamo agli antipodi di quella grandezza, di quel sacrificio e di quella generosità che aveva portato l’eroe a farsi carico della semenza di ogni forma di vita, affinché non perisse nel diluvio.

Nella versione biblica Noè non viene premiato con l’immortalità e la sua storia assume contorni apparentemente più prosaici: la sua arca si incaglia sui monti Ararat, dove scopre la viticoltura e inaugura la produzione di vino, facendo per primo l’esperienza dell’ebbrezza. Gli avvenimenti sono inquadrati in un complessivo percorso di alleanza con Dio, riservato non ad un singolo ma ad una umanità nuova, non immune da crisi, angosce e sviamenti, nel continuo susseguirsi di generazioni alle prese con i propri deliri e vacillamenti, come vacillante e incerta era la sovrabbondante arca, carica di ogni forma di vita.

La sovrabbondanza dell’arca è anche la sovrabbondanza della poesia che l’ha fatta conoscere a noi, a cui va, come minimo, il merito averci tramandato la sapienza di questo “prima” del mondo. Chi di noi, negli ultimi mesi, esposto all’estraneità dell’isolamento, costretto al silenzio e quindi all’ascolto, avrà avuto modo di esperire in sé la feroce e improvvisa emersione del proprio passato, l’incapacità di trovare consolazioni, la fragile nudità dell’io di fronte al proprio tempo e agli avvenimenti, non potrà non avere avvertito anche il richiamo alla ricchezza della propria vita interiore e, con esso, il desiderio di una parola in grado di riconciliarsi con l’intima essenza dei propri sconvolgimenti e all’angoscia del tempo presente. Continua a leggere

Il silenzio tenace di Mario Benedetti

Mario Benedetti, poeta italiano. Foto di proprietà dell’autore

di Lorenzo Babini

La mancanza di Mario Benedetti è per me innanzitutto legata ad alcuni ricordi personali, di quando cioè, tra gli anni 2011 e 2013, lo incontrai diverse volte, sempre in compagnia di Tommaso Di Dio. Rimasi sin da subito colpito da quella figura silenziosa, appartata e indifesa, le cui parole sembravano uscire a stento. Non ho avuto modo, tempo o fortuna di instaurare una consuetudine con lui ma posso dire che la mia percezione di allora fu che quel silenzio umile, grave e profondo avesse qualcosa da dire alla mia esperienza.

Ricordo che ne parlai una volta con Massimiliano Mandorlo, al termine di un reading che avevamo organizzato in un bar vicino a via Venini a Milano, in quel quartiere che oggi viene chiamato NoLo e di cui fino a pochi anni fa se ne ignorava l’appeal. Era venuto ad assistere a quella lettura di giovanissimi poeti anche Mario, che abitava in quella zona. La sua figura, da cui traspariva l’esposizione dolorosa e radicale dell’uomo di fronte al destino, aveva quella sera affascinato alcuni di noi, nonostante nessuno di noi lo avesse sentito pronunciare una sola parola. Questo accadeva per me prima di conoscere la sua poesia.

Più tardi, leggendo la sua opera, riconobbi la stessa presenza che era dell’uomo: la presenza cioè di un silenzio fragile e tenace, nato dall’umile aderenza alle cose, seriamente impegnato con il proprio vissuto e improvvisamente capace di esprimere, in un due versi slogati, dalla sintassi anomala, verità disarmanti sull’esistenza. Continua a leggere

Giovanni Ibello, “Dialoghi con Amin”

Giovanni Ibello, Credits ph. Dino Ignani

Prefazione di Luigia Sorrentino

In questi versi ulcerati di Giovanni Ibello c’è un sopravvissuto che invoca la rivoluzione dal margine dell’abbandono. La città sulla quale riversa lo sguardo il poeta non è patria madre per Amin – figura centrale del poemetto – ma nemmeno per l’altro protagonista di questi versi che condivide con il compagno la frustrazione della cancellazione. Il primo frammento del poemetto è già un avvertimento per il lettore: “La poesia è un lunghissimo addio”. La parola di questa poesia rivela fin da subito la cronicità della separazione, addio, miseria, segregazione si annidano in questi frammenti insurrezionali. I versi sorgono quindi da un grido di addio, dalla rinuncia a “fare alta la vita”, contratti come sono nel loro stato di alienazione, fino allo spasimo dell’ultima variante. Una parola potente che tocca la condizione umana tesa sul cavo di un burrone, una parola folgorante che si fa carico di qualcosa che non riguarda solo la capacita versificatoria di Giovanni Ibello. La lingua del poemetto, ha infatti, una prospettiva ampia, che parla di una generazione disposta a morire e a risorgere con Amin, con versi memorabili come questi: “Ci lega la parola feroce, una giostra di penombre./ L’incanto di una teleferica,/ l’esatto perimetro di un grido,/ tu che muori / in quell’assillo di aranceti / che ritorna.” Il cifrario della poesia di Ibello è uno Yucatan, inteso come luogo irraggiungibile e impenetrabile, che però, alla fine, trova nella cancellazione la tenerezza della visione: “Troveremo il dio delle cose lontane, troveremo una foresta di spine nel buio oltremare.” Ecco che la voce del reietto si fa espressione di una mutazione creaturale e lascia intravedere “un rammendo di secondi luce” che lenisce le ustioni provocate dalla violenza dell’esperienza terrena. Versi che rivelano che la speranza nasce dai disperati, dagli abbandonati: saranno loro a trovare “un altrove di spine e diademi.”

Dialoghi con Amin di Giovanni Ibello (premio Poesia Città di Fiumicino 2018, sezione “Opera inedita). Continua a leggere

Lorenzo Babini, “Fiaba”

Lorenzo Babini

Fiaba

Nella tua camera, sola, nella camera
silenziosa, in cima a una torre
circondata da sabbia e da un alto fossato,
con giardini panteschi sparsi qua e là nella valle …

ti hanno rinchiusa qui stirpi di antenati fenici,
popoli venuti dal mare, vecchi marinai,

e io che ti guardo in questo specchio di luce da migliaia di anni
e incanutisco, guardami, sono antichissimo
sono vecchissimo anch’io.

Lorenzo Babini, Fiaba


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