Mario Benedetti, fra un secolo e l’altro

di Elio Grasso

 

I.

Letture domenicali. Quando lusinghe stevensiane e privilegi d’autore strisciano sopra l’acqua del bagno caldo, raggiungono la punta del naso, compiacendone l’olfatto, e tutto è protetto dalle pareti domestiche, ostacolando il freddo novembrino. Un’altra lettura domenicale, sull’onda di un piccolo dono giunto dalla lontana Gorizia, che vorrei suggerire ai pochi felici lettori di “Poesia”: Una terra che non sembra vera. Agli altrettanto pochi dotati di buona memoria il nome di Mario Benedetti dovrebbe ricordare uno scritto su Padova, nella fortunata serie, ospitata qualche anno fa sulle stesse pagine della rivista, dedicata alle città dei poeti. Ricordo anche un’accesa recensione a I secoli della Primavera, precedente libro di questo autore schivo, timido, ma ben presente nelle nostre personali testimonianze poetiche. Una giuria composta, fra gli altri, da Silvio Ramat, Nico Naldini, Andrea Zanzotto, ha deciso di premiare questa piccola raccolta, facendola pubblicare da Campanotto. Credo, pur non conoscendo gli altri partecipanti al premio S. Vito al Tagliamento, che questa sia stata una decisione salutare, una di quelle decisioni che prendono il volo senza riserve. Così le poesie di Benedetti scendono da quei rami che egli sapientemente agita, lungo il corso dell’esperienza quotidiana e geografica (i percorsi sono quelli, vanno da Udine a Milano seguendo un’alta via di nevi e parole perenni), lungo le pieghe della terra che raggiungono le nostre case. Tempo e misura del tempo, misura dello spazio memoriale, tutto questo c’è senza che vengano costruiti rifugi trasognati. Mi sembra che il bisogno del padre, della donna, dei poeti, venga prima di tutto difeso dalle incombenze quotidiane, e poi condotto nell’alveare che contiene sì segreti, ma anche parole buone per la semina. Parole capaci di migrare con qualunque stagione. Le premonizioni del cuore si allargano nei versi di Benedetti in un modo che, di sicuro, non tengono lontano le prove tangibili del mondo: fiumi come i nostri, marine concrete e odorose, monti invalicabili e boschi attraversati da galatei famosi. Nella domenica delle nostre domeniche ci ritroviamo sui passi di Catine e Giovanni, di Esenin e Annina e Silvio, seguendo la traccia odorosa del sigaro di Vanni. Su altri terreni, baltici, ci sembra di vedere le scogliere leggendarie che l’occhio di questo poeta ha saputo trattenere, senza mezzi termini, senza facili genealogie o somiglianze. Quello che resta, appartiene ai nostri anni. Non è facile appartenervi, ma di sicuro dobbiamo insistere a studiarne principio e mutazione. Ecco, con un libro minuscolo come questo, tutto forse ci apparirà meno difficile e meno freddo.

(1997)

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Il tempo verticale di Mario Benedetti

GIAN MARIO VILLALTA RICORDA MARIO BENEDETTI

Ogni ricordo di Mario Benedetti che mi viene in mente porta con sé un luogo, non solo gli spazi aperti, i “posti” belli o brutti, ma a volte la stanza di una casa o il tavolo di un bar, il vagone di un treno, l’interno di un’auto. La sua presenza è sempre stata intensa, per me, di cose da dire e da tacere, di vicinanza o dispetto, di un’intensità che coinvolgeva tutto quello che c’era intorno. Anche quando si parlava, come si dice, “per parlare”, o quando si dice di “parlare di niente”, quando si sta insieme perché c’è qualcosa che accade, accade e basta (basta perché l’accadere è di più di qualsivoglia sua descrizione, e allo stesso tempo perché davvero basta, non gli occorre altro).

E’ questa l’amicizia, che si rivela a noi stessi quando c’è una continuità della voce dell’altro nei nostri pensieri. Quando anche il suo corpo parla e muove intorno a sé uno sguardo che ci sorprende e – sì, davvero – ci com-prende. Non importa se poi i caratteri portano a scontrarsi, o il sentire non è in sintonia, o se ancora qualcosa dell’altro ti è addirittura, a volte, insopportabile. Mario non è mai stato una persona empatica, anzi, proprio perché lo era al massimo grado, temeva e cercava di prendere distanza dall’empatia. Incorrendo per questo talvolta in equivoci. Anche se poi ti capitava di sentirgli sgorgare inattese autoaccuse, dichiarazioni enfatiche, scuse non richieste e imbarazzanti richieste di comprensione. Ciò non gli impediva di essere tagliente e odioso qualche ora più tardi. Non tollerava che fosse sprecato un solo pensiero, una sola occasione di vita. E non accettava che non si assaporasse o detestasse qualsiasi cosa al massimo, non accettava che non ci si esponesse o nascondesse al massimo.

Aveva le sue preferenze, le sue idee, ma quello che contava era che non si doveva mai mollare la presa sull’istante che si stava vivendo. Il tempo per lui non scorreva soltanto in avanti, ma aveva una dimensione verticale, scoscesa, che in ogni momento chiedeva a sé e a te di esserci, lì dove eravate, lui con tutto sé stesso e tu con tutto te stesso. Per questo “parlare per parlare”, “parlare di niente” a volte era di più che parlare di un qualche altro argomento, di qualcosa che si poteva inquadrare in un contesto e così tenere a distanza da sé. Come facciamo spesso, anche troppo. Mario era capace di gesti detestabili come di inattese affettuosità: essere lì con te in un modo che ti stanava da te stesso, solo questo gli importava, metterti di fronte alla percezione del tuo essere dov’eri, in quel momento, in quel respiro verticale del tempo, come fa la sua poesia. Continua a leggere

Mario Benedetti, un canto doloroso e di gioia

Mario Benedetti, Credits photo Dino Ignani

E’ stato un grande sogno vivere
e vero sempre, doloroso e di gioia.
Sono venuti per il nostro riso,
per il pianto contro il tavolo e contro il lavoro nel campo.
Sono venuti per guardarci, ecco la meraviglia:
quello è un uomo, quelli sono tutti degli uomini.
Era l’ago per le sporte di paglia l’occhio limpido,
il ginocchio che premeva sull’erba
nella stampa con il bambino disegnato chiaro in un bel giorno,
il babbo morto, liscio e chiaro
come una piastrella pulita, come la mela nella guantiera.

Era arrivato un povero dalle sponde dei boschi e dietro del cielo
con le storie dei poveri che venivano sulle panche,
e io lo guardavo come potrebbero essere questi palazzi
con addosso i muri strappati delle case che non ci sono.

Da Umana gloria, Mondadori, 2004

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Addio a Pierluigi Cappello

Pierluigi Cappello: “Mi è sempre rimasta impressa una frase di Alberto Moravia che commentò così la morte di Pier Paolo Pasolini: “ … di poeti non ne nascono molti nel mondo … il poeta dovrebbe essere sacro…”.

Lutto nel mondo della poesia. Si è spento all’alba del primo ottobre 2017 nella sua casa di Cassacco (Udine), il poeta friulano Pierluigi Cappello. Aveva 50 anni e soffriva da tempo di una grave malattia. Nato a Gemona del Friuli (Udine) e cittadino onorario di Udine e Tarcento.

Pierluigi Cappello dall’età di 16 anni era finito in sedia a rotelle a causa di un incidente stradale con la moto. A causa delle gravi difficoltà economiche in cui il poeta viveva, già da qualche anno, grazie all’interessamento di Gian Mario Villalta, sostenuto dall’intera comunità dei poeti, Cappello beneficiava del vitalizio della legge Bacchelli.

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A Milo De Angelis il Premio Poesia Castello di Villalta 2016

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Milo De Angelis

Alla premiazione interverrà il filosofo Massimo Cacciari sul tema “Filosofia e Poesia”.

Gli incontri nella vita possono diventare agguati, molto tempo dopo, quando la vita ci riporta Improvvisamente faccia a faccia con le persone nei luoghi che ci hanno fatto diventare quello che siamo, e anche soprattutto se li abbiamo perduti. E ‘l’intenso leitmotiv della raccolta ” Incontri e agguati ” (Mondadori 2015), Il libro con cui un grande poeta del nostro tempo, Milo De Angelis, vince la quarta edizione del Premio Poesia Castello di Villalta. Continua a leggere