Charles Simic, poesie

Charles Simic

Gente fuori di testa

Di questi giorni solo gli uccelli e gli animali
sono sani di mente e vale la pena parlarci.
Non mi spiace aspettare che un cavallo
smetta di brucare e mi dia retta.

Perfino un albero è più di compagnia.
Una quercia orgogliosa dei suoi rami
carichi di foglie troppo a modo
per rivolgersi a un estraneo con più di un sussurro.

Un corvo sarebbe un buon amico.
Quello che ho adocchiato
mi conosce bene, ma al momento
è indaffarato con una cosa che ha visto

nel cortile del vicino, che passa
sul terreno bruciato dove
anni fa soleva razzolare una dozzina di galline
con un gallo che strillava tutto il giorno.

Mad People

Only birds and animals these days
Are sane and worth talking to.
I don’t mind waiting for a horse
To stop grazing and hear me out.

Even a tree is better company.
Some oak proud of its branches
Heavy with leaves too polite
To address a stranger above a whisper.

A crow would make a good friend.
The one I have my eye on
Knows me well, but is currently
Busy with something he’s spotted

In my neighbor’s yard, going over
The scorched ground where
Years ago a dozen hens used to roam
And a rooster who crowed all day. Continua a leggere

Le poesie d’amore di Beatrice Zerbini

Domani è domani,
lo saprebbe tua madre,
lo sa ancora tuo padre.

Non si può nominare,
sfoltisce i calendari
di giorni in anni, tarda
a non essere più.

Qui si possono accendere
le candeline,

però tu non le spegni;
dappertutto è un incendio
tu sei tutta una cenere.

È un verso settenario
il ventinove maggio.

***

A volte sei solo una testa bionda,
un trench,
un cappotto di cammello,
spazzolato come non avessi
accarezzato i gatti;
a volte attraversi
e sei un baleno,
un’incrinatura dello spazio;
e spicchi nel grigio,
con i capelli,
fra i mortali.
E mentre trasalisco
e mi sporgo,
come un inciampo,
verso di te,
per chiamarti – e
devo fare presto,
prima tu sparisca,
dietro gli angoli,
come un vapore –,
mi ricordo
quel giorno
che ho bevuto Veuve Clicquot,
e l’ho sparso poi
sulla tua terra
ancora mossa e tenera.
Allora abbasso gli occhi
e la mano. Continua a leggere

La poesia di Arundhathi Subramaniam

Arundhathi Subramaniam

For a poem, still unborn

Over tea we wonder why we write poetry.
Ten people read it, anyway.
Three are committed in advance
to disliking it.
Three feel a vague pang
but have leaking taps and traffic jams
to think about.
Two like it
and wouldn’t mind telling you so,
but don’t know how.
Another is busy preparing questions
about pat ironies
and identity politics.
The tenth is wondering
whether you wear contact lenses.

And we,
as soiled as anyone else
in a world addicted
to carbohydrates
and words,

still groping
among sunsets and line lengths and
slivers of hope

for a moment
unstained
by the wild contagion
of habit.

*

A una poesia non ancora nata

Davanti a un tè ci domandiamo perché scriviamo poesie.
Dieci persone le leggono, in ogni caso.
A tre non piacciono
per partito preso.
Tre provano un vago struggimento
ma devono pensare ai rubinetti che perdono
e al traffico cittadino.
A due piacciono
e non avrebbero problemi a dirtelo,
ma non sanno come.
Un’altra è tutta presa a preparare domande
sulle facili ironie
e sulla politica dell’identità.
La decima si chiede
se porti le lenti a contatto.

E noi
corrotti come chiunque altro
da un mondo assuefatto
ai carboidrati
e alle parole,

brancoliamo ancora
fra tramonti, metrica e
schegge di speranza

per un istante
liberi
dal terribile contagio
dell’abitudine. Continua a leggere

Ruggero Cappuccio, al Mercadante presenta il suo ultimo romanzo

Palermo è un’isterica, ama solo la sua sofferenza, e quando riesce a goderne trasforma il dolore in arte.

Con questi pensieri Manfredi rivede dopo una lunga lontananza la sua Sicilia. Ha quarantatré anni ben portati, il gusto raffinato dell’antiquario, lo sguardo inafferrabile ed è tormentato e insieme nostalgico proprio come la sua città, dove rientra su richiesta dell’anziano e amato zio Rolando. Giorno dopo giorno, lo zio lo coinvolge nel racconto dei suoi ricordi, una vita appassionata che si intreccia alle ricerche della Natività di Caravaggio, rubata dall’oratorio di San Lorenzo nel 1969 e mai più rinvenuta.

Tra un capitolo e l’altro del mistero che si dispiega attorno a uno dei furti più eclatanti della storia, Manfredi deve affrontare anche i propri personali fantasmi che ha lasciato accovacciati tra i vicoli della bellissima e spietata città. Primo fra tutti l’amata Flavia, che lo abbandonò all’improvviso, inducendolo a prendere la decisione di lasciare l’isola. Mentre la relazione con lo zio Rolando si fa via via più profonda e carica di presagi, gli incontri con una bambina di strada fanno deragliare Manfredi verso un’inesplorata immagine di sé.

La voce di Ruggero Cappuccio si insinua tra le pagine a suggerire pause e cadenze di una sicilianità antica e preziosa, ci invita a passeggiare in una Palermo decadente che accoglie le insonnie notturne, il sapore degli amori finiti e canta la perdita umana, ma anche la vita che si rinnova e torna a chiamarci. Continua a leggere

Roberto Calasso, “I quarantanove gradini”

Roberto Calasso

NOTA DI LETTURA DI GIUSEPPE MARTELLA

 

Parto per una breve vacanza e mi porto appresso I Quarantanove Gradini, di Roberto Calasso, un libro uscito nel 1991 presso Adelphi ma che contiene saggi scritti durante il ventennio precedente. Dunque alcuni di essi risalgono a una cinquantina di anni fa. Eppure sono veggenti oggi come lo erano allora, cioè perfettamente “inattuali”. Come mai? Perché Calasso appartiene a quella schiera esigua di pensatori (Kraus, Benjamin, Borges) che hanno disegnato e percorso le più esoteriche e veraci costellazioni del Novecento. “Costellazione”, si sa, è un termine caro a Walter Benjamin che di quei pensatori è il sommo (non per nulla fa la parte del leone in questi saggi di Calasso). Un termine che designa un ente di ambiguo statuto tra il concetto e l’immagine, e tra la verità e l’opinione. Di costellazioni è formata la mappa del cielo e la sua storia per tracce. La mappa e la storia sono due modi antitetici e complementari di ordinare il mondo, dal micro al macrocosmo: dalla mappa del genoma umano alla teoria del big bang. Stanno fra loro come spazio e tempo, sincronia e diacronia. La prima si rivolge al colpo d’occhio, alla visione d’insieme; la seconda all’attenzione paziente di chi voglia indagare i nessi fra dettaglio e disegno, nonché la concatenazione delle cause e delle colpe. La costellazione è l’ologramma cifrato di mappa e storia, la fata morgana del cielo che ne raccoglie la storia in figure illusorie eppure capaci di farci orientare nel mondo dalla notte dei tempi. Il Grande e il Piccolo Carro, la Vergine, Orione, il “cacciatore celeste”. Ciascuna composta di astri che distano fra di loro migliaia di anni luce e la cui nascita risale spesso a epoche diverse della galassia.

Benjamin, come ogni altro autentico saggista, indaga sempre l’elusivo rapporto tra verità e opinione, nonché tra banale e fatale. Egli legge nelle tracce sparse del passato i profili esatti degli eventi futuri ma come rovesciati in uno specchio: in questo, come Calasso, risulta sempre sorprendentemente inattuale. Di Benjamin, scrive Calasso che piuttosto che un filosofo era un esegeta, un “commentatore perverso”, dedito a materiali sempre più alieni alla sua vocazione teologica. E cita da una sua lettera: “Io non ho mai potuto studiare e pensare se non in senso teologico, se così posso dire, cioè in accordo con la dottrina talmudica dei quarantanove gradini di significato di ogni passo della Torah.” (126) Come Benjamin, suo nume tutelare, Calasso è un glossatore perverso e veggente, uno capace di nascondersi in quel labirinto di citazioni che sono per la scrittura ciò che le costellazioni sono per gli eventi. Continua a leggere