
Emanuele Franceschetti
di Bianca Sorrentino
Preziose e pregnanti – per alcuni, irrinunciabili – sono quelle presenze che manifestano la loro essenza nella grazia del pudore, nell’armonia di ciò che non è urlato, ma solo appena suggerito. «Lo sanno bene le madri e la poesia / come si possa esserci, nascosti», svela Emanuele Franceschetti nella sua silloge, “Terre aperte”, in cui dà voce a quella ricerca strenua che accomuna gli amanti della Parola, il desiderio di cogliere appieno un mistero che invece è per sua natura remoto e inconoscibile. È forse perduto, infatti, il nome che l’io poetante insegue nel suo volo, simile a quello che intrecciano le rondini di Betocchi nel cielo del Novecento; eppure inesausta risulta la tensione del poeta verso la luce che risana, perché l’interrogativo che lo anima è quanto mai urgente, asseta come un’arsura estiva.
Quel senso di attesa che permea di gravitas la raccolta è abilmente ricomposto in un dettato limpido e in un ritmo che da un verso all’altro risuona con estrema misura, a testimonianza della solida formazione, delle letture approfondite (Luzi, Bertolucci, Sereni, Giudici, Eliot e Dante su tutti) e della spiccata sensibilità artistica dell’autore, il cui studio quotidiano, prendendo le mosse dal teatro musicale dell’Europa fin de siècle e dell’Italia del secondo dopoguerra, si concentra sull’affascinante rapporto tra poesia e musica. Risulta senz’altro significativo evidenziare quanto possa essere fertile la comparazione tra le discipline, soprattutto se questa urgenza si manifesta in un giovane, perché mostra il fervido desiderio di esplorare orizzonti altri, senza restare nei confini asfittici di ciò che già è noto.
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Così, da una Grecia che incessantemente sprigiona la sua forza antica e nello stupore rivela la sua contemporaneità, questi versi cristallini proiettano il lettore su un sentiero che, da un antro oscuro, conduce al bagliore che inonda chi riesce ad approdare a un nuovo orizzonte: viaggio che è dunque iniziazione e, insieme, serena accettazione dell’insolubilità di certi interrogativi che, tormentando furiosamente l’uomo, finiscono per ancorarlo alla sua dimensione mortale. Una sensibilità viscerale – che è simbolo del Femminile – permette a Luigia Sorrentino di accarezzare le eterne questioni dell’umano; ma è la sua qualità di autrice che le consente di trascendere i temi su un piano più alto, nella ricerca di una lingua raffinata, inattuale, che al contempo risuoni nella sua naturalezza: le parole di Olimpia – donna e città, bianca e altissima – non ammettono repliche, sono figlie della poesia irrevocabile dei tragici greci, che come nessun altro seppero dar voce al mito.
di Bianca Sorrentino
Questa universalità, documentata empiricamente ne La terra desolata proprio attraverso l’applicazione del metodo mitico – in base al quale il mŷthos diviene cioè paradigma per il presente –, nei Four Quartets viene indagata attraverso una meditazione altissima e rarefatta. Le passeggiate nella campagna inglese, lontana dalla polvere sotto la quale giace la capitale in guerra, forniscono l’occasione al poeta per riflettere sul senso della memoria, della ciclicità, del concetto di principio che finisce per compenetrarsi con quello di fine. Non è raro che in questo cammino gli elementi del paesaggio siano figura dei moti dell’animo, segnato nel profondo e reso consapevole dallo scorrere del tempo: si tratta di versi frutto di un’età matura, per di più limati nel corso di sette, lunghi anni (1936-1942), durante i quali la strada è riuscita a levigare le asperità di certe visioni. Così, in uno slancio di rinnovata fiducia e riscoperto senso del sacro, gli occhi si posano su un’arcana primavera invernale, un palpito di vita che ancora resiste dentro i ghiacci.