In memoria di te, Adrian Henri

Adrian Henri

Quest’anno (20 dicembre 2020)  ricorre il ventennale della morte del poeta e artista britannico Adrian Henri. Per commemorarlo, pubblichiamo un’ampia pagina con alcune delle sue poesie più significative con le versioni in italiano tradotte da Bernardino Nera.
Alla fine due poesie dedicate da una giovanissima Carol Ann Duffy al suo mentore, Adrian HenriLa traduzione delle poesie della Duffy è di Bernardino Nera e Floriana Manzuli.

LIVERPOOL 8

Liverpool 8…A district of beautiful, fading, decaying Georgian
terrace houses…Doric columns supporting peeling entablatures,
dirty windows out of Vitruvius concealing families of happy
Jamaicans, sullen out-of-work Irishmen, poets, queers, thieves,
painters, university students, lovers…

The streets named after Victorian elder statesmen like Huskisson,
the first martyr to the age of communications whose choragic
monument stands in the tumble-down graveyard under the cathedral…
The cathedral which dominates our lives, pink at dawn and grey at sunset…
The cathedral towering over the houses my friends live in…

Beautiful reddish purplish brick walls, pavements with cracked
flags where children play hopscotch, the numbers ascending in silent sequence
in the mist next morning…Streets where you
play out after tea…Back doors and walls with names, hearts,
kisses scrawled or painted…

Peasants merrymaking after the storm in Canning Street, street
musicians playing Mahler’s Eight in derelict houses…White
horses crashing through supermarket windows full of detergent
packets…Little girls playing kiss-chase with Mick Jagger in
the afternoon streets…

A new cathedral at the end of Hope Street, ex-government surplus
from Cape Kennedy ready to blast off taking a million Catholics
to a heaven free from Orangemen…Wind blowing inland from Pierhead
bringing the smell of breweries and engine oil from ferry boats…

LIVERPOOL 8

Liverpool 8…Un quartiere di case a schiera in stile georgiano, belle, fatiscenti
in rovina…Colonne doriche che sorreggono architravi scrostati,
sudice finestre fuori dai canoni vitruviani che nascondono
famiglie di giamaicani felici, ombrosi irlandesi disoccupati,
poeti, omosessuali, ladri, pittori, studenti universitari, amanti…

Le strade intitolate ai maggiori statisti vittoriani come Huskisson,
il primo martire dell’età delle comunicazioni il cui imponente
monumento si erge nel cimitero diroccato sotto la cattedrale…
La cattedrale che domina le nostre vite, rosa all’alba e grigia al tramonto…
La cattedrale che torreggia sulle case dove vivono i miei amici…

Bei muri dai mattoni rossastri, marciapiedi dai lastroni scheggiati
dove i bambini giocano a campana, i numeri crescenti in silenziosa sequenza
nella foschia del mattino seguente…Strade dove vai
a giocare fuori dopo la merenda…Porte di servizio e muri graffiati
o dipinti con nomi, cuori, baci…

A Canning Street contadini festosi dopo il temporale,
musicisti di strada che suonano l’Ottava di Mahler in case abbandonate…
Cavalli bianchi che sfondano le vetrine dei supermercati
piene di pacchi di detersivo…Nel pomeriggio ragazzine che giocano
con Mick Jagger a rincorrersi a caccia di baci…

Una nuova cattedrale in fondo a Hope Street, retaggio del governo passato
pronta a decollare da Cape Kennedy con un milione di cattolici
diretti verso un paradiso senza protestanti…Il vento soffia all’entroterra da Pierhead portando l’odore delle distillerie e della nafta dei traghetti… Continua a leggere

Lawrence Ferlinghetti, “A Coney Island of the mind“ & “Greatest Poems”

Lawrence Ferlinghetti (Foto d’archivio)

di Vernalda Di Tanna

Sconcertante, iconoclasta, dissacrante e melanconico, Lawrence Ferlinghetti delinea i capisaldi della sua poetica in quarantanove poesie raccolte in “A Coney Island of the mind” (1958), acme della sua produzione. Ferlinghetti prende per mano i suoi lettori, come se fossero dei bambini-adulti che hanno smarrito il senso della realtà più autentica: prontamente li accompagna in una sorta di giro turistico per le strade di San Francisco, città che assurge a simbolo di quella che è la capitalista e consumista “società del benessere” statunitense. Spenta e vivace, dalle luci al neon fino ai grattacieli, San Francisco espone cartelloni pubblicitari rivolti ad un pubblico di massa. Persino in un luogo sereno come il Golden Gate Park si annida una “spaventosa depressione”. L’autore fa della città e dei suoi (poco empatici) cittadini un circo, un grottesco cabaret, sineddoche dell’intero Stato nordamericano. Invece, il suo artigianale e spontaneo mestiere di poeta lo identifica con quello di un acrobata che ha il compito di indovinare la verità, prima di poter raggiungere la Bellezza, avanzando in bilico sul tagliente sguardo del suo pubblico. Ferlinghetti afferma di non essersi “mai sdraiato con la bellezza” in vita sua, ma “di esserci andato eccome a letto” generando le sue poesie. Su uno sfondo panico, immerso nella natura che l’autore immagina come un Paradiso, diversamente da Dante, “in cui la gente sarebbe nuda/ […]/ perché vuol essere/ un ritratto delle anime/ ma senza angeli apprensivi a dir loro/ di come il regno dei cieli sia/ il ritratto perfetto di/ una monarchia”. Le poesie dell’Ultimo dei Beat edificano, come afferma l’autore stesso, “un Coney Island della mente”, “un circo dell’anima”.

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Osip Mandel’štam

Nota d’introduzione
di Gianfranco Lauretano

Nel 1913, quando il mondo intero stava per fare un doppio salto nel vuoto, trascinato dalla guerra mondiale e dalla Rivoluzione, a San Pietroburgo un gruppo di poeti si inseriva autorevolmente nella letteratura russa, rompeva i legami con il simbolismo tra Otto e Novecento, alla ricerca di un realismo autentico e concreto, mosso dalla volontà di raggiungere l’acme delle cose, toccare la loro essenza. Di quel gruppo facevano parte Sergej Gorodeckij, Nikolaj Gumilëv, Anna Achmatova e Osip Mandel’štam.
Quello stesso anno Mandel’štam dava alle stampe la sua prima raccolta di versi, La pietra. La sua poesia è intrisa di sentimenti primari, oggetti, viandanti, specchi, dita che scivolano sulla superficie del mondo e sulla carne. I suoi versi sono pietre levigate, limate con tenacia e sapienza. Il suo è un gesto poetico netto, puro, indomabile. Continua a leggere

Bob Dylan ritirerà il Premio Nobel per la Letteratura?

foto ansa

foto ansa

Cosa succederebbe se Dylan snobbasse l’Accademia di Svezia e decidesse, ad esempio, il 10 dicembre prossimo, di rinunciare al Premio? Potrebbe essere davvero imbarazzante per i Giurati che per la prima volta nella storia hanno assegnato il riconoscimento a un musicista e cantautore.

Una cosa è certa: Robert Zimmermann, 75 anni, in arte Bob Dylan, non è un poeta. D’altra parte l’Accademia, la decisione di conferirgli il Nobel, l’ha motivata così: il premio va a Bob Dylan “per aver creato una nuova espressione poetica nell’ambito della grande tradizione della canzone americana “. E allora, qual e il significato culturale dell’assegnazione di questo Premio Nobel a un cantautore e musicista? E “un debito di riconoscenza?” E’ su questo che dovremmo interrogarci, sulla “poetica della canzone americana ” che ha fatto transitare Bob Dylan nei suoi celebri brani, come ad esempio quelli scritti agli Inizi degli anni Sessanta, che sono diventati degli inni di protesta dei militanti per i diritti civili: soprattutto la famosa “Blowin In The Wind.” Quindi l’Accademia svedese non sta dando il Nobel a un poeta, ma a un cantautore che ha scritto testi che hanno accresciuto la poetica della grande canzone americana.
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Bob Dylan Premio Nobel per la Letteratura 2016

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E’ il primo cantautore e musicista a vincere  il prestigioso Premio Letterario e per questo passerà alla storia. 

Bob Dylan, all’anagrafe Robert Allen Zimmerman, è nato il 24 maggio 1941 a Duluth, Minnesota. Le sue prime canzoni come “Blowin in the Wind” e “The Times They Are A-Changin” sono diventate dei veri e propri inni negli Stati Uniti perché denunciano la negazione dei diritti civili e costituiscono un proclama per contrastare ogni tipo di guerra. Continua a leggere